Welby e gli altri [Vernacoliere]

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Editoriale di Mario Cardinali sul numero del Gennaio 2007
del mensile di satira (in) Livornese "Il vernacoliere".

Questo articolo è stato scritto prima che Piergiorgio Welby morisse.
Lo pubblichiamo ugualmente, poiché tratta un tema che riguarda anche
tante altre persone.


Darsi una patta, si dice a Livorno. Levarsi dal mondo. Suicidarsi. Finir di patire pene strazianti, di corpo e di mente. Pene tanto più inutili quanto più un male inesorabile – per esempio – ti porta alla morte atrocemente.
E c'è chi preferisce darsela, quella patta che ti anticipa la fine comunque ineluttabile. Per non aspettarla con troppa sofferenza. Ma bisogna potersela dare, la patta. Per convinzione mentale e per possibilità pratica. Di buttarsi di sotto o di spararsi o di comunque farla finita.
Ma uno come Welby come fa? E come fanno tanti altri come lui? Non possono muovere un dito, immobilizzati nella paralisi della malattia, non ce la fanno nemmeno a parlare. E se ti fanno ugualmente capire di voler morire, di volerla finire colla pena d'una vita solo prolungata artificialmente – l'artificio spietato d'una tecnica che trionfa di se stessa – ecco tutti a dir la loro. Sulla vita degli altri. A rendertela indisponilbile, la tua vita. Lo Stato e la Chiesa soprattutto. Negando a chiunque il pietoso aiuto che ti faccia morire senza più soffrire. Di quella sofferenza che le leggi statali e quelle religiose considerano inscindibile dalla vita. Dalla nostra vita.
Curioso, lo Stato. Magari dispone di farti morire mandandoti in guerra, magari ti nega l'esistenza facendoti crepare solo e abbandonato in qualche anfratto da barboni. Ma t'impone leggi e deontologie inneggianti alla vita se a togliertela vuol essere qualcuno che tu invochi a farti finir le pene atroci.
E curiosa anche la Chiesa. T'aiuta a vivere magari con la carità, ma la carità di farti morire meno crudelmente te la nega. In nome d'una sofferenza divinamente necessaria, voluta dagli dei. I suoi dei. Anche se tu non ci credi. Non credi che un dio, se c'è, t'imponga di soffrir pene d'inferno immeritate.
E tutti gli altri, di corteggio. Medici e psicologi, politici e tuttologi. Tutti a voler disporre della vita tua. A importene la fine come voglion loro, secondo coscienza. La loro, chiaramente. La tua, di coscienza, non conta. Non conta la tua sofferenza. Anzi no, conta. Ma per lasciartela tutta fino in fondo, al massimo alleviandola in ultima pietà con la sedazione d'agonia.
Perché nessun singolo può disporre della vita altrui. Solo lo Stato ne dispone, fisicamente, e la Chiesa moralmente. Non per lasciarti andar via con una morte meno atroce – come tu vuoi – ma per allungare fino all'ultimo la tua sofferenza. Come voglion loro.
E ci sarebbe da vederli, loro, al posto dei tanti come Welby, o di chi comunque non ha più da sperare in alcuna possibilità umana né carità divina. O vederli, costoro che rappresentano stati e chiese, al posto dei familiari di quei moribondi all'ultimo respiro.
Io ho accompagnato mia madre, mano nella mano, nell'ultimo viaggio. Un viaggio sofferto atrocemente. Cinque ore d'agonia, un affannoso lungo soffocamento tanto più crudele quanto più previsto, dopo anni d'immobilità a letto, paralizzata da un ictus cerebrale. Al medico infine arrivato chiesi se poteva darle qualcosa per scorciare tanta ultima inutile sofferenza. Non si può, mi disse pietoso, come pietoso mi accarezzò la testa il prete che avevo fatto chiamare per l'estrema unzione, in rispetto della fede della moribonda. Gli altri familiari di là, a piangere in un'altra stanza, straziati di quell'ultimo strazio. E all'ultimo fiato di quella povera donna, da me amatissima, fui io a respirare per lei. Liberato anch'io dall'ultima sofferenza. Atroce. Disumana.
Per questo, anche per quella esperienza di ventisett'anni fa mi permetto oggi di dire qualcosa su quest'argomento. Senza niente proporre e nulla consigliare. Ma solo ricordando, insieme all'antica agonia di mia madre, l'ancor più antica socratica cicuta.

Mario Cardinali

30 Novembre 2006   |   articoli   |   Tags: