“Un romanzo dei Wu Ming sulla rivoluzione russa è come un libro di Mozart sulla musica”
Con queste aspettative abbiamo iniziato qualche giorno fa la lettura del nuovo romanzo del collettivo di scrittura bolognese.
Del resto come non avere aspettative quando si parla degli autori di Q, L’armata dei sonnambuli, Asce di guerra, 54 e Manituana? Il problema è che quando si parte così spesso si rimane delusi.
Non questa volta.
I primi capitoli di un romanzo wuminghiano ci lasciano sempre spiazzati. Anche se conosciamo bene i loro lavori precedenti non abbiamo mai quella sensazione del “Che bello sono ritornato a casa!” come ci capita in genere con i nostri (altri) autori preferiti come Nick Hornby o Stephen King; ci capita invece di pensare “Ma dove vogliono andare a parare questa volta?”.
Poi, d’improvviso, fra una pagina e l’altra vieniamo improvvisamente illuminati dalla stessa luce che investe il volto di chi apre la valigetta di Marcellus Wallace in Pulp Fiction.
Cos’è quella luce? (Classica domanda di chi vede per la prima volta il capolavoro di Tarantino). Come spiegarlo in poche parole? Diciamo che è Pennywise quando dice a Bill che le ossa degli adulti sono più fragili di quelle dei bambini; è il cantautore Tucker Crowe che capisce di essere stato un cretino a nascondersi dai suoi fans; è Aureliano Buendìa che traduce finalmente la scrittura di Melquiades; è Onoff che dice al commissario “Lei fa un buon mestiere… ma difficile!”.
È, in quattro parole, “il senso della storia” che i Wu Ming hanno un modo tutto loro, di celare all’inizio del loro racconto per dipanarlo improvvisamente quando meno ce l’aspettiamo.
(“Ma su Pulp Fiction non viene rivelato il contenuto della valigetta”. E dai su, avete sbagliato sala, il cinepanettone è di là).
Dicevamo il senso della storia quindi, però il fatto è che con i libri del collettivo bolognese capita che quando afferriamo il senso della storia del loro romanzo abbiamo la sensazione il di aver afferrato anche il senso della Storia… quella con la maiuscola.
Ok, abbiamo divagato troppo, ricominciamo da capo.
“Proletkult” (Einaudi, 333 pagine. € 18,50) non è propriamente un libro sulla rivoluzione russa. Ovviamente se ne parla visto che è ambientato a Mosca a ridosso delle celebrazioni per il decennale di essa, ma non è una ricostruzione romanzata degli eventi attraverso l’interfacciarsi di vari personaggi per lo più “realmente esistiti”, come sembrava essere diventato uno dei marchi di fabbrica del collettivo almeno fino a L’armata dei sonnambuli. O per lo meno, in questo libro non è certo questo l’aspetto dominante.
I Wu Ming escono dal vestito scomodo del “romanzo storico perfetto” che gli si era cucito addosso e come avevano fatto già con “L’invisibile ovunque” in particolare nell’ultimo geniale episodio sul camoufage mischiano le carte e giocano con il lettore.
Sappiamo che come valore letterario una storia “incredibile ma vera” ha lo stesso valore di una “inventata ma credibile”, ma questa volta i Wu Ming hanno giocato al rialzo: usano l’incredibile storia della rivoluzione russa per rendere vero il romanzo di fantascienza scritto da uno degli autori di quella rivoluzione. Parliamo di Alexander Bogdanov e il suo romanzo “La Stella Rossa” (recentemente ristampato in Italia da Agenzia Alcatraz) dove su Marte, tutti sono già comunisti e tifano per i bolscevichi. (Qui vorremmo fare una citazione sulla riconquista di Marte da parte del gerarca Barzagli ma abbiamo già divagato troppo).
Alexander Bogdanov è una di quelle persone della Storia (maiuscola, quindi quella vera) che meriterebbe decine di biografie. Dal suo vagabondare in Europa per fondare scuole di pensiero marxista quando era un esiliato russo dallo Zar, rivoluzionario contestato dai menscevichi di Plechenev e poi scomodo anche alla nuova maggioranza bolscevica del partito. Criticato quindi da Lenin con le stesse argomentazioni di Plechenev (lui che era il primo traduttore de “Il capitale” in russo accusato di tradire il marxismo). Ispiratore e fondatore dopo la rivoluzione del movimento Proletkult che avrebbe dovuto realizzare una cultura veramente proletaria (esperienza rinnegata da Lenin forse perché un movimento culturale aveva gli stessi iscritti del Partito Comunista cominciava a far paura) e ancora medico psichiatra e quindi precursore dell’uso delle trasfusioni di sangue. Ed anche scrittore di fantascienza, per l’appunto.
Tutto questi avvenimenti legati a Bogdanov durante la Storia di quegli anni in cui “il bagliore rosso ad est aveva dato speranza al mondo” (una citazione di Ernesto Che Guevara ci sta sempre bene) in Proletkult ci sono… come contorno alla storia (minuscola, quindi il romanzo) wuminghiana dello scrittore Bogdanov che dimenticati o quasi i suoi libri per l’attività di medico, incontra “i marziani” che aveva reso protagonisti di “Stella Rossa”. Ovviamente da medico e psichiatra pensa che queste siano solo persone malate che si siano lasciate sedurre troppo dalla sua prosa e dalle loro fantasie.
E il senso di tutto questo, voi direte?
Al di la’ del fatto che raccontare storie, vere o immaginarie che esse siano, ha un suo valore di per sé, uno scrittore, o un collettivo di scrittori come in questo caso, cerca sempre di far cadere l’attenzione del lettore sulle questioni che gli sono a cuore. Sia che siano questioni aperte, che dilemmi irrisolti.
Allora, tanto per rimanere nell’universo Wu Ming, se come pensiamo, il senso ultimo di Q era il grido “Omnia sunt communia” e la lotta per realizzare una società che rispettasse davvero quel precetto; se ne L’armata dei sonnambuli il messaggio era rivendicare la necessità di una rivoluzione che ribaltasse il potere costituito (“di teste alla fine ne avevamo tagliate troppo poche”); pensiamo di aver individuato anche il senso di Proletkult. Secondo la nostra modesta opinione, questo sta in una domanda o meglio in una serie di domande oggi di poco conto e peraltro senza risposta. Quisqulie. Dettagli tecnici. “Roba da intellettuali” direbbero oggi citando inconsapevolmente Goebbels quando pensavamo che “certe tragiche misere storie non si sarebbero più ripetute e invece no!” (Brunori sas, stavolta la citazione era più difficile da cogliere, ve lo concediamo).
Sintetizzando: nell’utopica società futura “dopo la rivoluzione” il singolo vale più o meno della collettività? Vale il singolo in quanto parte della collettività? Me se innalziamo la collettività fin quasi al ruolo divino non cominciamo a far meno parte di essa? E allora non è piuttosto la collettività a valere in funzione dei singoli che la compongono? Ma parlando di collettività, la natura è una collettività? E allora l’uomo può essere in conflitto con la collettività di cui fa parte fin dal principio?
(Chi ha pensato “che noia” può andare ad aprire il suo facebook che c’è Bonafede in diretta non vorremmo che se lo perda).
Attorno a queste piccole questioni verte ogni concetto di ciò che è democrazia ma anche tutto ciò che è alla sua sinistra: dalla socialdemocrazia al comunismo. Ogni volta che pensiamo quale limite deve avere lo Stato, ogni volta che pensiamo a quanto deve essere pubblica la vita privata di chi ci governa, ogni volta che ci chiediamo quale richiesta è un diritto e quale no, ogni volta che ci chiediamo quanto siamo disposti a condividere di personale per fare il bene della nostra specie, stiamo in realtà parlando di questi argomenti.
E i Wu Ming ne parlano attraverso le parole dei loro personaggi in modo leggero, comprensibile ma anche splendido e profondo fino a lasciarci intellettualmente soddisfatti. Sarà probabilmente la nostra condanna di vivere in un paese oggi così’ politicamente arido ed apolitico, in cui sentiamo ministri del lavoro dire che “Marcinelle insegna che non bisogna emigrare per lavorare”; ma leggere alcuni passaggi wuminghiani sul rapporto fra collettivo ed individuo ci sentiamo (concedendoci un altro parallelo) come Red insieme agli altri detenuti di Shawshank quando ascolta per pochi minuti l’opera di Mozart regalategli da Andy Dufresne. Liberi! Finalmente liberi da una realtà in cui siamo costretti a comprare il Sole 24 ore per trovare un quotidiano che si può leggere senza farsi venire i conati di vomito per l’indecente approssimazione e incompetenza.
Si, i dialoghi e le riflessioni dei Wu Ming sembrano venire da altri mondi, altri tempi, altri universi. Luoghi e tempi in cui non c’è né la paura della Politica né l’odio verso di essa. Anzi la si pratica quotidianamente perché ci si ritiene in grado e quindi in dovere di cambiare il mondo. Si discute e ci si confronta perché si ha una visione, un’idea, un ideale che ci sentiamo obbligati a condividere per far stare meglio tutti. E noi stiamo meglio quando qualcuno ci da altre buone idee, perché se ci confrontiamo è anche per apprezzare le idee degli altri.
E allora sì, lo ammettiamo. Cadiamo nella vostra provocazione cari Wu Ming: noi siamo gli alieni, i marziani anzi i nacuuniani che nonostante questa società di video in diretta sul social non abbiamo rinunciato a parlare, confrontarci, cercare di convincerci a vicenda, litigare, lottare perché tutti possano star meglio.
Ora però cari Wu Ming la domanda ve la dovreste aspettare. A parte ritemprarci con i vostri libri che sono raro cibo per i nostri residui neuroni sopravvissuti fra Salvini, Renzi e Berlusconi… considerando come siamo messi e cercando di avere una visione ampia, plurale e globale… dateci un consiglio, “Che Fare?”
Alessandro Chiometti