Tibet, la nostra apprensione, il silenzio del Vaticano

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* Francesco Pullia su Notizie Radicali

17/3/2008

Inutile celare l'apprensione per quello che potrebbe accadere a Lhasa,

e nell'intero Tibet, tra qualche ora, quando scadrà l'ultimatum dato

dai militari cinesi ai "rivoltosi". Le notizie che giungono sono

tutt'altro che rassicuranti.


Soltanto l'altro ieri un'emittente di Hong Kong accennava ad un ampio
spiegamento di duecento veicoli dell'esercito, ognuno con circa
sessanta uomini, diretto verso la capitale tibetana.

Il fatto, poi, che gli invasori e occupanti cinesi si siano premurati
di eliminare collegamenti telefonici, internet e oculari (sono stati
mandati via giornalisti, turisti e possibili testimoni) la dice lunga
sulle pessime intenzioni del governo di Pechino.

E' certo che bisogna adoperarsi in tutti i modi per sostenere la causa
tibetana (che è anche la stessa dei democratici in Cina).
Manifestazioni, sit in, volantinaggi, maratone oratorie vanno bene,
benissimo e rientrano nell'articolata prassi del satyagraha.

Però non basta. L'idea di Marco Pannella di un monitoraggio
satellitare del Tetto del Mondo e, in particolare, di Lhasa, in modo
da garantire documentazione delle violenze commesse dai cinesi e,
nello stesso tempo, di utilizzare metodi di dissuasione è come sempre
saggia e lungimirante così come la richiesta, avanzata insieme a Marco
Cappato, di convocare con la massima urgenza il Parlamento europeo in
seduta straordinaria.

Riprovevole e biasimevole è, invece, l'emblematico e vergognoso
silenzio del Vaticano, nel solco di un'annosa storia di reticenze,
doppiezze, tatticismi, opportunismi, omissioni.

I giornali hanno riportato l'accorato appello rivolto al pontefice da

Tenzin Gyaltsen, inviato speciale del Dalai Lama e suo portavoce in
Europa. La risposta non si è fatta attendere: silenzio, silenzio,
assordante silenzio.

E dire che, specialmente negli ultimi tempi, le gerarchie
ecclesiastiche non hanno di certo mancato di loquacità.

Domenica, prima dell'Angelus, Joseph Ratzinger si è ben guardato
dall'esprimere sdegno, indignazione, condanna nei confronti della
brutalità cinese o anche una sola parola, una preghiera, un pensiero
per i tibetani. Niente di niente.

Le motivazioni di un simile comportamento vanno rintracciate in ambito
politico ma anche religioso.

Da un lato, infatti, è noto che la Chiesa stia tentando di ricucire
una serie di rapporti con la Repubblica popolare cinese miranti ad
assicurare garanzie ai cattolici. Ovvio, quindi, che eviti di
commettere "passi falsi".

Dall'altro, però, non deve passare come secondario l'atteggiamento di
sufficienza, quando non fortemente ostile, con cui questo papa,
corifeo di una visione fortemente assolutistica, monocratica,
accentratrice, considera le altre esperienze religiose e, in
particolare, quelle non monoteiste e orientali. Non è un caso che
abbia bollato proprio queste ultime come espressioni onanistiche.
D'altronde l'attuale papato si è ormai caratterizzato come nettamente
antitetico all'indirizzo conciliare giovanneo (e ci riferiamo sia a
Giovanni XXIII ma anche a Giovanni Paolo I, Albino Luciani, studioso
della teologia francescana bonaventuriana e del pensiero indiano).

I tibetani, come già accaduto con i birmani, non possono rientrare
nell'attenzione di Joseph Ratzinger perché nulla è più pericoloso per
la dogmatica cattolica del buddhismo, orientamento etico e religioso
non basato su alcuna "rivelazione" e "addirittura" negatore
l'esistenza di una divinità unica e creatrice.


Concetti come karma, causa ed effetto, samsara, ciclo delle morti e
delle rinascite, satori, illuminazione, bodhicitta, attitudine verso
tutti (sottolineiamo tutti) gli esseri senzienti, dharma, legge,
rappresentano per il tradizionalismo tridentino di cui è portavoce
Ratzinger una minaccia tanto quanto la bruniana infinità dei mondi.

Si consideri, per un momento, quanto siano diametralmente opposte la
figura del Dalai Lama e, appunto, quella dell'odierno capo della
Chiesa cattolica.

Il primo si professa instancabilmente umile monaco buddhista nonché
seguace e attuatore della nonviolenza gandhiana, è attratto dalle
frontiere più avanzate della ricerca scientifica a tal punto da
ritenersi disposto a sconfessare come non veritiere le teorie
buddhiste che non superano il vaglio della biologia, della fisica,
della quantistica.

Il secondo, al contrario, va imperterrito per la sua strada con il
passo del gambero, arroccato nell'assolutezza della sua posizione. Il
primo esorta gli occidentali che in numero sempre maggiore ne
ascoltano gli insegnamenti a non abbandonare la religione originaria
e, anzi, ad approfondirla.

Il secondo, al contrario, scorge ovunque occulte trame di relativisti,
laicisti, agnostici e intende unilateralmente l'ecumenismo come
rafforzamento e diffusione del potere ecclesiatico.

Peccato. Questa Chiesa sta perdendo, uno dietro l'altro, gli
appuntamenti importanti con la storia privilegiando gli ori alla
parola.

18 Marzo 2008   |   articoli   |   Tags: