Se il diritto alla morte è questione di censo

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Il suicidio assistito di Lucio Magri dello scorso novembre ha suscitato i più disparati commenti. Tra chi ha condannato e chi ha semplicemente scelto il silenzio, unica espressione di rispetto per l’altrui libertà, non sono mancati quelli che si sono permessi di sindacare sulle modalità del gesto, declassando il suo suicidio alla serie B solo perché  non avrebbe avuto il “coraggio” di buttarsi dal quinto piano, imponendo a familiari e amici lo scempio del suo corpo, o di lasciare aperto il gas, magari per far saltare in aria qualche inconsapevole vicino di casa. Il dazio da pagare per essere liberi (dal peccato?).

Ma parliamo di chiacchiere e al più di commenti giornalistici; in un paese come il nostro, in cui la vita viene imposta a colpi di sondino, non c’è stato spazio politico per una riflessione seria. Il moralismo italiota dice no a tutto ciò che esce dalle sue maglie e che poi questo “ciò” succeda comunque non è affare che possa cambiare le regole del gioco. Lo Stato non può punire il suicidio (a meno di non rimandare a giudizio i morti) ma non può ammetterlo, così come non può autorizzare prostituzione e droga. E pazienza che esista  il mercato del sesso e chi lo pratica sia esposto – proprio perché non riconosciuto – a ogni forma di rischio; pazienza che ci sia chi di droga muore ogni giorno perché la somministrazione è al di fuori delle regole riconosciute. L’evidenza della realtà non costituisce elemento di discussione di certezze tanto granitiche quanto ottuse.

E così il suicidio assistito è diventato una pratica per ricchi, al pari della fecondazione eterologa. Qui no, ma altrove si può. Basta prendere un aereo. L’ipocrisia del Bel Paese continua a reprimere la libertà personale per concederla solo a quelli che possono ottenerla altrove. Chi può va in Svizzera a cercare una morte dignitosa o in Spagna a cercare un figlio con gameti diversi. Per poi tornare sull’italico suolo finalmente soddisfatto del suo desiderio di morire o procreare. A meno che nel primo caso non voglia sfracellarsi sul selciato e nel secondo cornifichi il coniuge per nobili fini. Questo no, non si può (ancora) impedire.

Non così insensibili si stanno dimostrando sul tema del suicidio assistito gli inglesi. Al pari della normativa italiana, che punisce con la reclusione da cinque a dodici anni «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» (art. 580 del Codice penale), anche quella inglese attualmente in vigore prevede fino a 14 anni di reclusione per chi aiuti una persona a suicidarsi. Solo che al parlamento inglese non è sfuggita la diaspora di malati terminali che si recano in Svizzera per cercare una fine dignitosa alle loro sofferenze. E infatti la Commissione britannica per la morte assistita ha previsto, nei giorni scorsi, di diramare un’informativa per chiedere la depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito per i malati terminali con meno di un anno di vita. Il che significa, in soldoni, dare a tutti cittadini che sono in quella condizione lo stesso diritto a prescindere dal conto in banca. Il primo passo verso uno Stato che invece di  preoccuparsi di tramutare l’insindacabile diritto di morire in dovere di vivere, si ponga come obiettivo quello di non alimentare una sperequazione sociale basata sul censo.

E chi è convinto che oggi il nostro governo abbia altre priorità – la crisi! – che non occuparsi di dignità della vita (e della morte) ci dica anche quali fossero quelle dei governi precedenti, da sempre coesi nell’avallare l’ipocrisia dell’”occhio non vede cuore non duole” con tutte le ricadute sul piano sociale pur di salvare una facciata che nel terzo millennio, era di extraterritorialità, mostra tutte le sue crepe.

10 Gennaio 2012   |   articoli, attualità   |   Tags: , ,