Ruini, il manicheo [Corriere dell’Umbria]

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* di Roberto Segatori

A sentire il cardinale Ruini e il vescovo Betori esisterebbero italiani buoni e italiani cattivi. I primi sarebbero quelli (i soli) impegnati a salvaguardare la famiglia, a difendere la vita, a uniformarsi agli insegnamenti della Chiesa. Non di Cristo, ma della Cei. I secondi vorrebbero distruggere la famiglia, predicare l'amore omosessuale, negare, come Welby, la vita. Una distinzione manichea. Che non contiene solo una colossale falsità, ma qualcosa di peggio.


Le parole di Ruini e di Betori sono state dure, perentorie, a tratti sprezzanti. Molti italiani le hanno ascoltate all'inizio con stupore, poi interdetti, e infine con la tristezza di chi si sente gratuitamente offeso. Ma  come, proprio loro, del "non giudicate e non sarete giudicati"? Massimo Cacciari ha detto di lasciar perdere: non ne vale la pena, essi non si curano dei veri mali del mondo, sono fuori della storia. Probabilmente Cacciari ha ragione, ma forse il suo è un modo troppo sbrigativo di liquidare la questione. Perché due cose vanno ricordate in questo tempo della riflessione e della memoria (che non deve esistere solo per la Shoah). La prima è che quasi tutti gli esseri umani si imbattono in tre categorie considerate uguali, mentre in realtà sono profondamente differenti. Le categorie del religioso, della religione e della chiesa. Religioso è l'atteggiamento delle persone che si pongono domande sul senso della vita e della morte. Che credono che la vita non si risolva semplicemente nel qui e ora, ma che sia sempre possibile pensare un altrove, trovare altri significati e altri modi di essere. La religione consiste nell'aderire ad una rivelazione, nel credere ad una fonte di verità, sia essa rappresentata dalla parola di un Dio, di un messia, di un profeta. La chiesa, a sua volta, è un'istituzione che, a partire da una religione, definisce la sua missione nel regolare i rapporti tra l'umano e il divino, sovrintendendo ai discorsi teologici e morali. Questa piccola distinzione ci permette di capire che si può vivere in una dimensione religiosa senza aderire ad una religione particolare o senza appartenere a una chiesa. E che, a volte, si possa essere membri di una chiesa e contemporaneamente tradire la religione che la ispira. Tra le chiese poi ce ne sono di vari tipi: quelle che rimettono all'autonomo esercizio di intelligenza da parte dei fedeli l'interpretazione delle scritture, e quelle organizzate gerarchicamente che affidano a ruoli istituzionali di potere (per cui si usano i termini di ministero e di carisma) il compito di mediare il rapporto tra Dio e l'uomo. La Chiesa cattolica romana è di questo secondo tipo.

Veniamo ora al tempo della memoria. Lunedì scorso, su queste pagine, Antonio Santantoni, un sacerdote, parlava di due anime di quella Chiesa. Provo a descriverle anch'io. C'è una Chiesa dell'amore (Gesù di Nazareth), della carità (Francesco d'Assisi), della pietà (Carlo Maria Martini con Welby, ma non solo). E c'è una Chiesa attaccata al potere, che vuole imporre la sua volontà con la legge. La memoria di questa seconda Chiesa non va lasciata nell'oblio. Richiama una storia pesante. Tra l'VIII secolo e il 20 settembre 1870, ovvero per più di undici secoli, la seconda Chiesa ha preteso di esercitare il suo ministero spirituale tramite un potere temporale diretto. Tre papi su tutti sono emblema di questa ferrea presa sui territori dello "Stato della Chiesa": Innocenzo III (1198-1216) che approfitta del venir meno dell'influenza bizantina, Martino V (1417-1431), alla fine del periodo avignonese, e Giulio II (1503-1513), che succede al nepotismo di Alessandro VI, il padre di Cesare Borgia. Si tratta di monarchi assoluti, che stroncano sul nascere le velleità autonomistiche e gli aneliti libertari di comuni e principati dell'Umbria, delle Marche e della Romagna. Gli spoletini sono costretti a ricordarselo per l'incombenza della Rocca Albornoziana, i perugini per i resti della Rocca Paolina. Poi, di papa re in papa re, si arriva all'ineffabile Pio IX, tanto inizialmente suscitatore di entusiasmi liberali, quanto alla fine personaggio querulo, indispettito per essere stato privato delle terre del regno. E nel mezzo – continuiamo a febbraio il tempo della memoria? – la caccia alle streghe, il rogo di Giordano Bruno (17 febbraio 1600), l'ammonimento del Cardinale Bellarmino a Galileo Galilei (26 febbraio 1616), poi condannato e costretto all'abiura nel 1633.   

C'è stato un momento, con Giovanni XXIII, che è sembrato che le due Chiese si ricomponessero in una Chiesa sola, con grandi speranze di credenti e non credenti. Poi l'antica tentazione è ricomparsa. Se le religioni come l'Islam sono forti perché sanno ancora imporre la loro legge, perché non può tornare a farlo la Chiesa di Roma? Così probabilmente ragionano i Ratzinger, i Ruini, i Betori, pensando di essere i depositari della verità, gli unici sapienti del mondo. Manichei di oggi.

Ma il problema, lo sappiamo, non sono neppure loro. Sono gli onorevoli "fedesperanzacarità" che ne sono soldatini fedeli, è un presidente della repubblica tentennante in cerca di compromessi. Ha ragione monsignor Betori. Non è tempo di compromessi. Se fosse possibile, sui pacs e tutto il resto, il giudizio andrebbe rimesso al popolo con un bel referendum. Come quelli sul divorzio e sull'aborto degli anni settanta del secolo scorso.

dal Corriere dell'Umbria del 1/1/2007

14 Febbraio 2007   |   articoli   |   Tags: