L’eutanasia passiva dello Stato italiano [Unità]

Pubblicato da

Da l'Unità del 8/9/2008

L'anti-Welby: Anche io ho perso la speranza

Fin'ora ha usato tutti i mezzi
a sua disposizione per invitare a resistere. Per trattenere alla vita,
contro ogni rassegnazione, chi come lui da anni è costretto
all'immobilità, alla malattia. Senza tregua. Ha scritto ai giornali, è
intervenuto nelle polemiche pro e contro l'eutanasia.


E' stato, fotografato, ripreso, intervistato per la voglia di vivere, «nonostante tutto». Ma adesso anche per lui, Salvatore Crisafulli, è difficile andare avanti. Aprire ancora gli occhi, seppure con un movimento leggero. Stendere le labbra, che sia per una smorfia o un accenno di sorriso. È molto, troppo faticoso «optare ancora per la vita».
E ha deciso di scriverlo il 5 settembre, in una lettera pubblica indirizzata al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Con una richiesta specifica: quella di essere «assistito adeguatamente». Perché questo è il punto per il disabile catanese di 43 anni, affetto da «sindrome assimilabile alla Locked-in» dopo un incidente stradale avvenuto nel 2003. La questione, al di là dei dibattiti sulla «buona morte» è quella di una «decorosa vita». E della mancanza di politiche, interventi, provvedimenti che allevino almeno un po' lo sforzo a chi vuole provare a vivere. «Da svariati anni – scrive Crisafulli a Berlusconi, definendolo la sua ‘ultima spiaggia', – non esiste una intensa e continuativa assistenza, e non vengono applicati gli aspetti sociali.
Esiste invece la burocrazia, il menefreghismo, l'abbandono e l'indifferenza totale da tutte le istituzioni competenti: nessuno sa niente, nessuno agisce, nessuno si muove». L'uomo, che ora comunica con il computer grazie a un sofisticato software muovendo lo sguardo, la testa e in particolare gli occhi, afferma di essere «stanchissimo di lottare». E reclama ascolto. Azioni concrete. Facile dibattere, infatti, dichiararsi tutori, paladini della «vita», cavalieri della bioetica. Ma poi lasciar scivolare provvedimenti. Tralasciare fatti, dimenticare persone.
Mentre Crisafulli ricorda, ripercorre le fasi recenti più significative della sua battaglia: ad esempio durante il dibattito e la richiesta di eutanasia avanzata da Piergiorgio Welby, l'uomo malato di distrofia muscolare, a cui alla fine, secondo la sua volontà, venne staccato il respiratore sotto redazione dal dottor Mario Riccio. Ricorda Crisafulli e riflette : «Fui costretto a scrivere una lettera indirizzata allo stesso Welby, supplicandolo di lottare per la vita. Gli dissi: "Ti supplico non chiedere la morte, ma combatti insieme a me per la vita". Ottenni una risposta veramente straziante».
Quella di Welby infatti fu una replica senza appello; intrisa di sofferenza, secca di fiducia. «Uno Stato che non ha pietà di me, che non sa ascoltare la mia voce, sarà meno capace di ascoltare la tua. – gli rispose Welby – Uno Stato che saprà rispettare le scelte di fine vita, sarà più capace di rispettare le tante straordinarie vite che siamo».
Parole aspre, eppure «oggi da me condivise» scrive Crisafulli. Perché non sono bastate le proteste contro «l'eutanasia passiva dello Stato italiano», né lo sciopero della fame e il rifiuto delle cure, per mancanza di assistenza e di applicazione di varie leggi sui disabili gravissimi. «Protesta sospesa dopo aver ricevuto una lunghissima e toccante lettera dall'ex Ministro della Salute, Livia Turco», nota l'uomo. Ma non è servita neanche una lettera del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: in quel caso veniva sollecitato «un confronto sensibile e un chiarimento responsabile sulla mancata attuazione di varie leggi che garantiscono il diritto alla salute sancito dalla Costituzione». E si ribadiva la necessità di avere maggiore cura e assistenza, richiamando in particolare anche il diritto al voto dei disabili intrasportabili. «Cosa assolutamente infattibile in Sicilia -, scrive Crisafulli – dove da svariati anni non esiste assistenza, non vengono applicati gli aspetti sociali, e ci sono varie leggi come la 328 e la 162 non recepite dalla Regione».
Carichi di omissioni e distrazioni che finiscono per spegnere una già debole voce. «Quando, si arriva alla disperazione come, attualmente, nel mio caso, si spegne quella fiamma della speranza, che, non trovando concrete risposte assistenziali, sfocia in una domanda di eutanasia e di fine vita». Una domanda in fondo raccolta in poche parole, che sintetizzano tutto: poche lettere asciutte che raccontano di una vita estrema: «do non ce la faccio più». E uno sguardo a dire a chi gli sta accanto: «Mi dispiace, davvero».

8 Settembre 2008   |   articoli   |   Tags: