Anniversario del 5 Ottobre

Pubblicato da

arin-mirkan-kobane1
Sappiamo “che viso avesse” e pure “come si chiamava“: il suo nome era Deilar Kanj Khamis (nome di battaglia Arin Mirkan); sappiamo “quanti anni avesse visto allora e di che colore i suoi capelli” e la fantasia non deve regalarci alcuna “immagine sua” perché come tutti gli eroi che vorremmo immaginare era davvero giovane e bella (ma non é per questo che la ricordiamo).
Conosciamo anche “l’epoca dei fatti e qual’era il suo mestiere“: fino al 5 ottobre 2014 era la comandante di una YPG (unità di difesa del popolo) una delle tante donne che difendevano la città di Kobane dall’aggressione delle truppe del califfato.
Sappiamo anche dalle testimonianze di chi l’ha conosciuta che era una combattente forte e coraggiosa.
Arin non aveva una patria da difendere, perché ufficialmente non esisteva (e non esiste tutt’ora) una nazione curda: esiste un’idea di società civile tra i Curdi, un’idea di società libertaria, un’organizzazione anarchico-municipalista nata nella regione autonoma del Rojava (una ginestra nata nel deserto) e che offre a quegli uomini e a quelle donne una garanzia di libertà, di sopravvivenza e di uguaglianza (si tenga presente che fino a pochi anni fa nel Kurdistan i matrimoni combinati erano la consuetudine, oggi le donne hanno pari dignità degli uomini e partecipano alla vita politica e pubblica, imbracciano le armi e combattono insieme agli uomini contro i nemici comuni).
Quella regione che aveva conquistato il suo spazio vitale improvvisamente nel 2014 si è vista minacciata delle milizie del neonato stato dell’Isis: un’orda feroce di assassini che da ogni parte del mondo venivano ad offrire i propri servizi come combattenti al nuovo califfo Al Baghdadi.
Quei guerrieri di Allah hanno condotto la loro nuova guerra non solo contro l’occidente, ma contro il mondo intero con una brutalità ed una barbarie che ricordano il medio evo.
Le scene di decapitazioni e di esecuzioni pubbliche a mezzo di vittime (spesso civili inermi) bruciate vive hanno riempito gli schermi televisivi di tutto il mondo, perché questa guerra del terrore è stata combattuta anche e soprattutto al livello mediatico.
I terroristi dell’Isis sapevano bene che nella mente dell’occidentale medio i loro militanti sono visti come un fanatici, pazzi e sanguinari dei quali comunque si ha paura; in primis perché sono imprevedibili, in secondo luogo perché (di fatto) non temono la morte.
Questa vocazione al martirio (caratteristica principale anche se non esclusiva di ben due monoteismi di derivazione abramitica) viene vista con una sorta di recondito rispetto spesso neanche troppo consapevole da parte di chi guarda la televisione con piccolo-borgese passività: l’uomo medio del ricco occidente vincolato ai propri principi di civiltà.
Questa visione è anche stata stigmatizzata in passato quando qualcuno tra i più alti intellettuali del nostro emisfero evidenziava che l’ideale romantico dell’islam appare comunque vincente di fronte all’ipocrisia borghese della società occidentale.
In realtà non si tratta assolutamente di inferiorità occidentale: si tratta semplicemente di una apparente ridotta libertà di azione da parte di chi è ancorato a principi etici rispetto a chi invece ha attraversato “la linea d’ombra” (e, ricordiamocelo, non sono solamente i fondamentalisti islamici ad attraversarla), ma questo buona parte dell’opinione pubblica non ha ancora imparato a capirlo; nei media, la “volontà di ferro” di quegli uomini (per quanto fanatici assassini e terroristi) affonda “come una lama nel burro” nella nostra molle, sonnacchiosa e pigra quotidianità occidentale contemporanea, perché in molti esiste la supposta convinzione che per agire come loro bisogna essere per forza come loro.
Ma non basta: perché l’uomo medio di qualsiasi estrazione subisce passivamente l’incredibile fascino della “linea d’ombra”, la vocazione ed il narcisismo con cui i militanti jihadisti sposano la causa del martirio e della volontà stragista è l’altra faccia della paura con cui vengono visti da chi li guarda attraverso gli schermi televisivi.
Ma il 5 ottobre 2014 i combattenti di Allah, “votati al martirio” dalla teocrazia di Daesh (a cui avevano regalato le loro menti deliranti) che erano penetrati nell’abitato di Kobane, non hanno avuto di fronte civili giovani o anziani indifesi, quel giorno stavano per incontrare una delle loro più umilianti sconfitte ideologiche, perché quel giorno si sono trovati di fronte la comandante Arin Mirkan: una donna, emancipata, presumibilmente non credente o comunque non indottrinata da alcun credo politico o religioso (parte dei Curdi del Rojava sono anch’essi musulmani), facente parte di una struttura anarchico-egualitaria (prodotto della cultura occidentale non capitalista e quindi neanche attaccabile da quel revanscismo ideologico che accompagna le crociate di ogni religione al fine di trovare un pretesto alle proprie velleità nell’agire contro il corrotto “consumismo occidentale”) che ha dimostrato a quei presunti “uomini di ferro” che cosa significhi invece avere una “volontà di acciaio” e non perché ci fosse un paradiso che la aspettava dopo la morte, ma perché per lei quelle idee di libertà ed uguaglianza su cui è cresciuta e su cui si è emancipata (e che dovrebbero essere per noi alla base di una società laica ed egualitaria), quelle idee che stava difendendo, erano più importanti della sua stessa vita.
L’episodio della sua morte risulta essere avvenuto su una collina fuori Kobane chiamata “Mistanour hill” per impedire che i miliziani dell’Isis potessero impossessarsene e sparare da quella posizione sopraelevata sui difensori e sugli abitanti della città. Quello che non conosciamo è la precisa dinamica dei fatti (perché ogni sito web che menziona l’episodio riporta una versione differente): non sappiamo se la comandante Arin Mirkan stesse difendendo la posizione e si fosse ritrovata circondata e senza munizioni o se stesse conducendo un attacco contro una posizione tenuta dai miliziani del Califfato oppure se il suo fosse un contrattacco suicida individuale per rompere l’accerchiamento in cui si è ritrovata.
Quello che è riportato da tutti i media è il fatto che, per non essere catturata viva e finire violentata e trucidata e (presumibilmente) anche per cercare di respingere i nemici ormai alle porte, Arin con determinata freddezza ha innescato una carica di esplosivo e si è gettata contro un mezzo blindato del califfato distruggendolo ed uccidendo almeno 23 dei miliziani appiedati che erano appostati nelle vicinanze.
Nulla di nuovo nella storia delle guerre: sarebbe un film già visto se non fosse che in questa occasione le conseguenze politiche sono state infinitamente diverse da tutti gli episodi similari accaduti nei secoli precedenti.
Iniziamo con l’evidenziare che il suddetto episodio è avvenuto in un momento di totale espansione dell’Isis in cui i miliziani del califfato sembravano davvero inarrestabili, i Curdi erano aggrappati alla parte nord-occidentale di Kobane e la città sembrava che stesse per cadere nelle loro mani da un momento all’altro.
Il peso di quel gesto politico, prima che “di guerra”, in quel momento ha dimostrato che il fanatismo becero e fondamentalista poteva essere fermato con fredda determinazione da parte di persone che, come lei (pur non avendo nulla), erano disposte a morire per quei principi che erano nati in occidente ma che un certo occidente a volte sembra aver dimenticato.
Non basta: stiamo parlando di un simile gesto emblematico perpetrato da una donna, ossia il soggetto più martoriato e sottomesso da parte degli integralisti islamici.
Tanto la donna è scarsamente considerata in quella visione (apparentemente maschilista ma che travalica gli stessi confini del maschilismo sfociando nella totale idiozia ideologica) che, per la stessa cosmogonia che l’ha generata, se si cade in battaglia uccisi da una mano femminile nessun paradiso divino e nessuna vergine aspetteranno dopo la morte il combattente di Allah macchiatosi di una simile onta.
Non ci è dato sapere se la scelta di Arin sarebbe stata diversa qualora (senza una simile aggressione fondamentalista al suo popolo) non avesse avuto di fronte la prospettiva di essere violentata e poi trucidata dai miliziani dell’Isis se per caso fosse stata catturata ma è anche vero che, se non avesse avuto di fronte quella prospettiva in caso di cattura, sicuramente non si sarebbe trovata nella posizione di dover difendere quelle idee di libertà ed uguaglianza da un’aggressione fondamentalista di quella portata e quindi sarebbero venute meno le premesse che giustificavano un simile “gesto politico” da parte sua.
Non c’è neanche da escludere che un simile gesto possa essere stato dettato da una forte componente egotico-narcisista che sarebbe perfettamente normale ritrovare nel carattere di una donna giovane ed emancipata come lei che si trova a ricoprire un ruolo apicale all’interno della neonata struttura sociale a cui è afferente (non dimentichiamo che il complesso di Valmy è caratteristico di ogni collettività nata da una rivoluzione sociale); questo particolare vale per tutti coloro che sono portati a mitizzare gli eroi della propria “parte ideologica” come giovani belli e senza macchia, mentre chi è razionalista accetta la loro umanità con tutti le caratteristiche che la accompagnano e considerando anche che la vocazione al martirio degli uomini (magari anche suoi coetanei) che Arin si è trovata a fronteggiare non è estranea alla stessa identica matrice egotico-narcisista la quale fa parte della natura umana.
L’elemento che può rendere eroico un gesto al confronto di un altro è il fine politico per cui quella “caratteristica” della nostra personalità viene utilizzata da chi ha deciso di “immolarsi per una determinata causa”.
Non ci è dato sapere neppure se nel momento del suo sacrificio lei fosse consapevole della portata del suo gesto, perché spesso chi è autore di un’azione (che sia un’opera, un’impresa o anche un gesto politico) non sempre ha il tempo e le capacità di rendersi conto delle conseguenze che ne deriveranno.
Ciò che è rimasto a noi è la sostanza del suo gesto: un gesto forte, aperto, cristallino ed indiscutibilmente autentico al punto da oscurare e disintegrare qualsiasi velleità ideologica che muoveva i nemici che si è trovata a dover affrontare (sconfitti attraverso la loro stessa modalità di azione) e dei quali lei ha dimostrato di essere più forte; un gesto che è stato esempio per le migliaia di donne curde che hanno affrontato i terroristi di Daesh e alle quali va tutta la nostra gratitudine; un gesto slegato dalle appartenenze di partito o religiose e che rappresenta un esempio per tutte le donne e tutti gli uomini che in ogni parte del mondo hanno a cuore la difesa dei principi di uguaglianza e libertà dall’aggressione del fondamentalismo.
Ad una donna del genere deve andare tutta la nostra gratitudine per il solo fatto di aver dimostrato che per i principi di uguaglianza e libertà si può morire con la stessa determinazione di chi vuole distruggerli.
Ciao Arin … ciao Deilar … a te e a tutte le tue compagne possiamo davvero dire “Bella ciao” … per aver combattuto un nemico che è nato anche dalla politica dell’occidente e che gli si è rivoltato contro … ma questa volta siete voi ad esser cadute per la libertà ! … siete voi ad aver pagato con la vita anche la nostra libertà  … e per questo sarete sempre nei nostri cuori e nei nostri ricordi !
Francesco Saverio Paoletti

5 Ottobre 2016   |   articoli, attualità   |   Tags: , ,