Sherlock Holmes, la rivincita della razionalità

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Buone notizie per noi razionalisti, tornano sui grandi schermi le avventure di colui che è il simbolo indiscusso della razionalità e del metodo scientifico.

Ovviamente sto parlando di Sherlock Holmes, indimenticato detective entrato da almeno un secolo nell’immaginario popolare con una prepotenza tale da considerarlo quasi una personaggio storico.

Il nuovo Holmes cinematografico ha il volto di Robert Downey Jr. mentre Jude Law interpreta l’inseparabile Dottor Watson. Due dei più celebri attori di Hollywood sono sufficienti certo a garantire gli incassi al botteghino e a fare del film l’evento della fine 2009.

La sfida con il mito però non era certo facile. Quando ci si confronta con una leggenda si è soliti cadere nella banalità e nei luoghi comuni, che spesso, per altro, sono apocrifi. Se ad esempio siete affezionati all’odiosa frase “elementare, Watson!”, o al deerstalker, buffo berretto da cacciatore diventato simbolo di ogni detective, o alla pipa calabash, sappiate che di tutto questo nel vero Sherlock Holmes, ovvero quello dei romanzi e dei racconti di Sir Arthur Conan Doyle, non c’è mai stata traccia. Queste caratterizzazioni sono tutte dovute ai primi interpreti teatrali di inizio 1900.

Nel film di Guy Ritchie di tutto questo, per fortuna non c’è traccia, ma ciò non vuol dire che si limita ad un ricalco letterale delle opere di Doyle, anzi.

L’Holmes dei racconti era un consumatore accanito di morfina e cocaina (per tenere il cervello occupato fra un “caso” e l’altro), ostentava un’assoluta indifferenza per ciò che non gli era funzionale allo svolgimento delle indagini (ignora perfino che la terra orbita intorno al Sole e non viceversa) perché la mente umana è come un magazzino e se lo riempi di casse che non ti servono poi non hai spazio per le casse che ti servono, era un freddo e cinico razionalista che deplora l’amore che come tutte le emozioni contrasta con la logica che è al di sopra di tutto.

Di tutto ciò in un blockbuster hollywoodiano non può esserci traccia, o quasi. Però Guy Ritchie rispetta lo spirito razionalista di Sherlock Holmes e questo è già importante con i tempi che corrono… del resto dopo lo scempio fatto ad Hollywood con “Io sono leggenda” di Richard Matheson siamo pronti a tutto.

E allora forse possiamo riscoprire nel film quell’emozione che tanto ci piaceva nelle storie di Doyle, ovvero lo smascheramento degli impostori, dei falsi maghi, dei sedicenti stregoni che ottenebravano le menti degli sprovveduti con qualche distillato di un’erba esotica che noi, poveracci, non abbiamo di certo sentito nominare ma che Sherlock Holmes conosce alla perfezione.  E quando, alla fine, rivela il piano criminale ci sentiamo quasi sciocchi ad aver creduto per qualche tempo a presunte resurrezioni dall’oltre tomba, a sedicenti magie o a prodigi che altro non sono che trucchi da baraccone.

La verità è sempre stata lì davanti a noi perché, “una volta eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità”. 

Lunga vita a Sherlock Holmes.

 

J. Mnemonic

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