Prete pedofilo a Firenze: lo Stato sta a guardare

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Don Roberto Berti, ex parroco della Curia di Firenze, è stato condannato per pedofilia dalla Congregazione della dottrina della fede.

La sentenza giudica il parroco colpevole di “molestie sessuali e psicologiche su minori” e prevede per lui “la residenza obbligata, in regime di vigilanza, in una struttura fuori dalla diocesi di Firenze per un percorso di recupero spirituale e psicoterapeutico. L’arco di tempo complessivo previsto per portare a termine il programma di recupero sarà di otto anni. In questo periodo don Berti è escluso da ogni attività pastorale. Al termine degli otto anni la Congregazione per la dottrina della fede riesaminerà la situazione, valutando se il cammino di rigenerazione spirituale e psicologica avrà ottenuto i risultati sperati”.

In  virtù del perdono cristiano, l’arcivescovo di Firen­ze monsignor Giuseppe Beto­ri scrive nella lettera di accompagnamento della sentenza: “Nel ripensare alle grandi sofferenze che questa triste vicenda ha causato, l’Arcidiocesi ribadisce la sua vicinanza a quanti ne hanno subite le penose conseguenze e rinnova l’impegno affinché simili funesti episodi non accadano mai più, mentre accompagna con la preghiera il percorso di rigenerazione umana e spirituale del colpevole”.

Ricapitolando, un parroco ha molestato sessualmente dei bambini (al punto da scatenare una sentenza della Congregazione della dottrina della fede, l’erede diretta della Santa Inquisizione) e  viene mandato in un’altra provincia per una “rigenerazione spirituale”.  L’Arcidiocesi pregherà per lui e tra otto anni si vedrà. Nel frattempo Berti sarà comodamente alloggiato in altra parrocchia in regime di piena libertà e come penitenza perderà “ogni attività pastorale”. In quella parrocchia circoleranno, ignari, dei ragazzini. Ma lui sarà troppo occupato a pregare per degnarli delle sue  immonde attenzioni.

Si ripete, insomma, una storia nota, in particolare in America latina: i preti pedofili, nel silenzio dell’omertà e dell’ignoranza, vengono spostati in altre parrocchie e lì continuano indisturbati, su altre vittime, i loro abusi.  

La domanda sorge spontanea: ma lo Stato dov’è?

Un prete che abusa dell’infanzia viene condannato da un tribunale eccelsiastico ma non dalla giustizia italiana. E’ più grave, pare, il peccato sessuale del reato – ripugnante – di violenza sessuale nei confronti di minori.

Dobbiamo pensare che se sconterà la prima pena (pregare) sconterà automaticamente anche la seconda? O dobbiamo pensare che la giustizia italiana “ha i suoi tempi”? O ancora, che grazie al Concordato e al Trattato tra la Santa Sede e l’Italia le autorità ecclesiastiche non siano soggette all’obbligo di denunciare il caso a quelle italiane e possano quindi sbrigarsela ‘in casa’? Le linee di confine tra le due giurisdizioni, anche su territorio e  cittadini italiani,  sono infatti pericolosamente – e volutamente – labili.

Due parole merita infine il ‘peccato’ di pedofilia nella Chiesa cattolica.

Per la Chiesa sono cinque i peccati mortali, per i quali non è sufficiente la confessione: rubare ostie consacrate per usarle in riti satanici; violare il segreto della confessione; commettere, se si è preti o suore,  peccati sessuali (e la pedofilia rientra in questi); abortire o rendersi corresponsabile di aborto; aggredire o offendere la persona del Papa.

Violentare un bambino è come rubare delle ostie o offendere il Papa. In quest’ottica, un trasferimento in altra parrocchia appare addirittura una pena severa.

Cecilia Maria Calamani – Cronache Laiche

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