Il razzismo non è scienza. Intervista a Guido Barbujani

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Guido Barbujani è un genetista e scrittore italiano. Ha lavorato alla State University of New York a Stony Brook (New York), alle Università di Padova e Bologna, e dal 1996 è professore di genetica all’Università di Ferrara

Si è formato in genetica delle popolazioni, ha lavorato su diversi aspetti della diversità genetica umana e della biologia evoluzionistica. In collaborazione con Robert R. Sokal, è stato fra i primi a sviluppare i metodi statistici per confrontare dati genetici e linguistici, e così ricostruire la storia evolutiva delle popolazioni umane.

Professor Barbujani, partiamo dal fatto “nudo e crudo”: un deputato di estrema destra del partito ungherese Jobbik si è sottoposto ad un test genetico per dimostrare di non essere di etnia ebrea o rom ma “ungherese puro”.
È scientificamente possibile dimostrare geneticamente di non appartenere ad una data etnia?

No. Centinaia di studi dimostrano che nessun gruppo umano, definito in base al territorio che occupa, alla lingua che parla, alla religione che pratica, o a qualunque altro criterio, ha caratteristiche genetiche specifiche che permettono di riconoscerlo obiettivamente. Le varianti genetiche umane sono quasi tutte cosmopolite, cioè presenti in tutto il mondo, e le differenze fra popolazioni umane sono differenze di frequenza di queste varianti: qualche popolazione comprende più persone di gruppo sanguigno 0, qualche altra di gruppo sanguigno A; in qualche popolazione le persone intolleranti al lattosio sono il 40 per cento, in altre il 30 o il 50%; e così via. Sono convinto che abbia ragione Marco Aime quando,nel suo documentatissimo “Verdi tribù del nord” (Laterza), dice che un gruppo etnico è semplicemente un gruppo di persone convinte di appartenere allo stesso gruppo etnico.

Se questo è vero, e non abbiamo dubbi in proposito, com’è possibile che un laboratorio privato si sia fatto pagare per un test che non ha nessun valore scientifico?

La risposta è nella domanda: finché c’è gente che paga per delle insensatezze, ci sarà sempre altra gente che, a pagamento, fornirà quelle insensatezze.

Allora quando si sente dire in alcuni programmi cose del tipo: “in base al dna l’omicida potrebbe essere asiatico” sono tutte fesserie?

Non sono necessariamente fesserie, nel senso che ci sono alcune caratteristiche (tutte rare) che permettono di piazzare un DNA sulla carta geografica con buona precisione. Per esempio, se si trova che uno è microcitemico, allora si può anche dire con molta precisione se la mutazione che causa la microcitemia gli viene dal delta del Po, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Grecia o da Creta. Se la mutazione è tipicamente siciliana, può voler dire che è siciliano quello che ha lasciato la traccia biologica, oppure sua madre, o suo padre, o suo nonno, o sua nonna, o suo bisnonno (eccetera). Ma i microcitemici sono pochi, e pochi sono coloro che portano nel loro DNA mutazioni informative sulla loro origine geografica, che poi potrebbe non essere la loro ma quella di qualche antenato. Per cui, alla domanda risponderei che sono spesso, anche se non sempre, fesserie (e infatti si sentono più nei telefilm che nei telegiornali).

Nel suo libro “Sono razzista ma sto cercando di smettere” ha cercato di sfatare tutti i luoghi comuni attorno alle fantomatiche razze umane. Perché è cosi difficile nella mentalità popolare accettare che, geneticamente parlando, ciò che unisce gli uomini è infinitamente maggiore di ciò che li divide?

Mi piacerebbe poter rispondere, ma in realtà non lo so. Posso dire però che nei diversi periodi storici l’umanità è stata più o meno sensibile alle differenze. Nell’impero romano nessuno faceva caso al colore della pelle, nella Georgia schiavista di Via col vento, come sappiamo, non era così. Oggi attraversiamo un periodo in cui le difficoltà economiche spingono un po’ tutti ad agitarsi. C’è chi si agita per trovare soluzioni, ma molti si agitano in maniera sconclusionata, inventandosi nemici a cui attribuire la colpa del proprio malessere.

Gli antichi greci dividevano il mondo in due: loro e i barbari. Non le sembra che da allora non abbiamo fatto significativi passi avanti sotto l’aspetto dell’integrazione della tolleranza?

Mi sembra più, come ho detto, un processo a zig-zag, con continui alti e bassi. Una qualche forma di diffidenza per il diverso è molto diffusa e può anche darsi che rappresenti una realtà psicologica ineliminabile. Però, in molti casi, la conoscenza reciproca aiuta (o dovrebbe aiutare) a raggiungere forme di coesistenza. Coesistenza, non tolleranza, perché questa parola indica che qualcuno sopporta e qualcun altro viene sopportato, e non è quello a cui si deve puntare. Coesistenza vuole invece dire un livello più profondo di accettazione delle caratteristiche altrui. Anche se le notizie dall’Ungheria fanno venire il voltastomaco, è utile però ricordarsi che esistono esempi diversi. Io vivo a Ferrara, e le tendopoli formatesi qua in Emilia all’indomani del terremoto sono un bell’esempio di coesistenza fra persone molto diverse, di provenienza europea, africana e asiatica, che in situazioni difficili hanno saputo collaborare e ad aiutarsi.

Tornando all’aspetto scientifico, secondo lei lo studio della genetica ha aiutato nella diffusione di questo concetto di coesistenza o ha creato nuove divisioni?

Io credo che in questo campo la scienza non possa fare molto, nel bene e nel male. Quando le ideologie razziste del Novecento hanno avuto successo, la scienza (una certa scienza: non tutti gli antropologi erano razzisti) ha fornito loro delle giustificazioni, ma chi gestiva i campi di concentramento lo faceva per un preciso progetto politico, non scientifico. Allo stesso modo, oggi molti scienziati hanno preso posizioni chiare di rifiuto del razzismo (anche nel caso ungherese in questione), ma la soluzione al problema va cercata in primo luogo a livello politico, sociale ed economico.

Alessandro Chiometti

22 Giugno 2012   |   articoli, filosofia e scienza   |   Tags: , , , , ,