Discussione sulla Filosofia – La Scuola di Atene

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Premessa: La discussione nasce dalla mia curiosità di approfondire alcune tematiche filosofiche dopo un avvicinamento superficiale alla Filosofia. Per far questo mi sono rivolto all’insegnante (e non professore come ci tiene a sottolineare) Marcello Ricci.

Le mie saranno domande non da addetto ai lavori, ma da semplice curioso, dove per curiosità si intende quella intellettuale.

L’intenzione è quindi quella di fare divulgazione attraverso la pubblicazione di una discussione nella quale uno dei due (io) interroga l’altro sulle tematiche di cui è competente. In pratica è la pubblicazione di una serie di “lezioni” private che però non sono guidate dall’insegnante ma dall’allievo.

 

Filosofia dunque significa “amore per la sapienza”, eppure il motto di uno dei padri di essa, Socrate, era “so di non sapere”. Non è una contraddizione?

 

Amore del sapere e della conoscenza vuol dire desiderio di ricercare per capire tanto che Socrate afferma nell’Apologia che “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. Socrate ha ricercato per tutta la vita e ha capito che la caratteristica della condizione umana è quella di non conoscere razionalmente quei concetti universali che ricercava come ad es. la giustizia, la bellezza, la santità, l’amicizia ecc. allora dunque l’unica conclusione è il “so di non sapere”, che non è solo un fatto negativo, una non conoscenza, ma è esso stesso una forma di conoscenza, l’unica forma di conoscenza possibile data dalla acquisita coscienza della propria e della altrui ignoranza. Dunque non c’è contraddizione. Però chiediamoci: “si può ricavare qualcosa di positivo da questa forma di conoscenza all’apparenza così negativa?” Dobbiamo rispondere di sì, infatti se non conosciamo quei valori assoluti che abbiamo ricercato vuol dire che la società che dovremo costruire deve bandire ogni forma di assolutismo morale, religioso e politico, deve essere cioè pluralista e democratica e deve rifiutare ogni forma di fondamentalismo e di integralismo religioso e politico. Ecco perché il “so di non sapere” è il fondamento di ogni forma di libertà e Socrate è il padre della laicità occidentale.

 

 

Socrate interrogava i presunti sapienti dell’Antica Grecia, dimostrando che in realtà essi non conoscevano l’essenza delle cose, ad esempio quando gli chiedeva “cos’è una sedia?”, loro rispondevano che serviva per sedersi e lui gli faceva capire che gli avevano descritto l’uso ma non avevano risposto alla domanda “cos’è una sedia?”. Però è davvero così importante conoscere l’essenza vera della sedia quando sappiamo che serve per sedersi?

 

Socrate non ricercava l’essenza delle cose, questo è Platone che le essenze le aveva poste nel mondo delle idee, essendo appunto le idee le essenze delle cose. Socrate ricercava i concetti morali universali ossia quei concetti come la giustizia, la santità, l’amicizia, la bellezza ecc. la cui conoscenza condiziona il nostro comportamento pratico. Facciamo l’esempio del dialogo Eutifrone, nel quale Socrate interroga il sacerdote Eutifrone che aveva incontrato in piazza mentre tutto di fretta andava a denunciare il padre che aveva commesso un’azione empia cioè un omicidio, avendo fatto morire uno schiavo. Allora Socrate prende l’occasione per chiedere al sacerdote di dire a tutti che cosa è la santità, doveva infatti conoscerla visto che giudicava empia, cioè non santa, l’azione del padre. Il dialogo si conclude riconoscendo che il sacerdote non sapeva affatto che cosa era la santità, ma che non lo sapeva neppure Socrate, la differenza stava però nel fatto che mentre Eutifrone era convinto di sapere Socrate invece era cosciente di non sapere. Nel corso delle sue confutazioni (si chiama confutazione la dimostrazione che le definizioni dei concetti suddetti sono tutte logicamente sbagliate) Socrate usa esempi tratti dalla vita di tutti i giorni per farsi capire e per far capire quanto la filosofia fosse alla portata di tutti, però non è mai stato interessato all’essenza delle cose, ma solo ai concetti morali.

 Socrate in realtà non ha lasciato scritto niente di autografo. Come possiamo realmente conoscere quanto Platone c’è in ciò che ci è arrivato di Socrate e quanto è originale?

 Questa è la famosa questione socratica che affatica da più di due millenni gli studiosi di filosofia. Socrate, come Gesù, non ha scritto nulla. Perché? Perché concepiva la filosofia come dialogo vivo con un’altra persona, cioè concepiva la filosofia non come ricerca solitaria, ma come ricerca che richiede la presenza dell’altro, che deve fornire le definizioni dei concetti ricercati e deve concedere durante il processo argomentativo altre affermazioni che Socrate usa all’interno del ragionamento logico. Facciamo un esempio: sempre nel suddetto dialogo Socrate chiede al sacerdote Eutifrone che cosa è la santità e questi risponde che essa consiste in ciò che è caro agli dei. Socrate vuol verificare la giustezza o meno di questa definizione e chiede al sacerdote se gli Dei sono sempre d’accordo tra di loro, al che Eutifrone risponde che non sempre sono d’accordo anzi che spesso sono in contrasto tra di loro. Socrate ha subito buon gioco a concludere che allora la definizione è sbagliata perché se gli dei contrastano tra di loro per alcuni sarà cara una cosa per altri la cosa opposta e quindi non hanno un concetto unico di santità. Da questo esempio si capisce perché Socrate ha bisogno del dialogo e perché la filosofia consiste nel dialogo stesso.

Quanto al problema di conoscere ciò che ha veramente detto il Socrate storico possiamo usufruire di molte fonti, ma la più importante è quella del suo allievo Platone che ci ha lasciato testimonianza nella Apologia e nei Dialoghi giovanili. La prima è un resoconto del processo che lo Stato ateniese mise in piedi contro Socrate, accusandolo di non credere agli dei e di corrompere la gioventù, i secondi sono costituiti, molto probabilmente, dai dialoghi che Socrate faceva continuamente nella piazza nei quali ricercava i concetti etici e che si concludevano tutti con una professione di ignoranza: so di non sapere. Però Platone ha complicato le cose, ha fatto di Socrate il protagonista anche nei dialoghi della sua maturità filosofica, quando aveva già sviluppato una filosofia molto diversa da quella del maestro, visto che affermava di conoscere ciò che Socrate invece dichiarava di non sapere, e gli ha messo in bocca le sue idee: ad es. che l’anima è immortale, che esiste un mondo nell’al di là (mondo delle idee), che l’anima si reincarna (metempsicosi). In tal modo alcuni studiosi hanno considerato di Socrate quello che invece è, a mio avviso, di Platone. Il ragionamento per poter distinguere è semplice: nella Apologia Socrate si professa chiaramente agnostico circa gli dei e circa la immortalità dell’anima infatti afferma che non sa cosa c’è dopo la morte e nei dialoghi giovanili dimostra come il vero sapere è il so di non sapere, invece nel dialogo della maturità che è il Fedone Platone mette in bocca a Socrate le prove dell’immortalità dell’anima e in altri dialoghi anche la teoria dell’esistenza di un mondo delle idee trascendente. É dunque molto probabile che il Socrate storico si ritrovi nelle opere giovanili di Platone, quando quest’ultimo non aveva maturato un suo pensiero autonomo e dunque riportava più fedelmente che in quelle della maturità il pensiero del maestro. Ho molto semplificato, la questione socratica è molto più complessa e probabilmente irrisolvibile.

 Platone, allievo di Socrate, sviluppa a tal punto la ricerca dell’essenza del suo maestro da arrivare a ipotizzare che noi non possiamo conoscere la realtà delle cose ma solo la loro “ombra” (il famoso esempio delle ombre proiettate sul muro della caverna dove tutti abitiamo). Arriva così a definire il mondo perfetto delle idee, a cui solo l’anima dell’uomo può accedere prima di venire al mondo.

Tutto ciò è molto poetico, ma in realtà questo non rappresenta una resa, una sconfitta? L’uomo deve ammettere di non poter venire a conoscenza della vera natura delle cose, sinceramente mi sembra molto triste?

 Da quanto già detto è chiara la differenza tra la filosofia di Socrate e quella di Platone. Questa differenza si vede chiaramente analizzando il mito della caverna contenuto nell’opera di Platone La Repubblica che in verità non è proprio un mito irrazionale ma solo un’allegoria cioè un travestimento simbolico di concetti filosofici. Platone vuol dimostrare come, partendo dalla conoscenza del mondo reale, si possa giungere alla conoscenza delle idee che sono le essenze delle cose ma che stanno in un mondo trascendente, appunto il mondo delle idee, un mondo spirituale e immateriale. Questa conoscenza si raggiunge attraverso una serie di gradi che vengono narrati per mezzo di un racconto fantastico e mitico: alcuni uomini sono prigionieri all’interno di una caverna con il viso rivolto verso il fondo, c’è un fuoco all’imboccatura della caverna davanti al quale vengono fatte passare delle statue che proiettano la loro ombra sul fondo, gli uomini sempre stati in quella condizione credono che che le ombre siano la vera realtà, la caverna simboleggia la condizione umana di ignoranza della verità. Successivamente con grande sforzo alcuni prigionieri riescono a voltarsi e a capire che non le ombre sono la vera realtà ma le statue. Tradotti in termini filosofici questi rappresentano i primi due gradi della conoscenza ed esattamente della conoscenza sensibile, la quale per Platone è conoscenza imperfetta che può arrivare solo ad avere opinioni, perché del nostro mondo sensibile che è in continuo mutamento non si possono avere conoscenze scientifiche stabili ma solo opinioni mutevoli. Poi il mito prosegue ad illustrare gli altri due gradi della conoscenza quella vera, scientifica che si può avere solo del mondo delle idee che è fisso e stabile: i prigionieri, sempre faticosamente perché il processo conoscitivo dalla ignoranza alla conoscenza non è semplice per chi lo intraprende, escono fuori della caverna e si accorgono che la verità non sono le statue ma le cose reali che vedono riflesse nell’acqua e infine riescono a capire che la verità non sono le cose rilesse ma le cose reali fuori dall’acqua. Questi due ultimi gradi tradotti in termini filosofici rappresentano rispettivamente la conoscenza matematica e quella filosofica, conoscenza dunque scientifica che ci può essere solo del mondo stabile e immutevole delle idee e che può acquisire solo il filosofo. Solo quest’ultimo è capace di conoscere quei concetti etici che Socrate non aveva trovato e in particolar modo il concetto di giustizia, si comprende allora perché per Platone lo Stato deve essere governato dai filosofi. Per rispondere dunque alla domanda non si può dire che si conoscono solo le ombre, per Platone si conoscono le idee che sono le essenze delle cose, anche se la conoscenza è riservata a pochi.

 Aristotele (allievo di Platone) in un certo senso chiude il cerchio dei suoi predecessori. Rivaluta l’apparenza delle cose perché questo apparire comunque è funzione del loro essere (della loro essenza). C’è chi dice che ancora oggi i filosofi si dividono in due grandi famiglie: quelli che ritengono che l’apparenza delle cose non conti nulla e quelli che ritengono che l’apparenza è importante in quanto funzione dell’essenza delle cose. Io, lo ammetto, non ho le idee ben chiare su quale posizione sposare, e tu?

 Aristotele, allievo di Platone produce una filosofia completamente diversa da quella del maestro, quanto Platone aveva svalutato il mondo sensibile, quello cioè che ci è reso accessibile con i nostri sensi, tanto Aristotele lo rivaluta eliminando il mondo delle idee. E se le idee erano le essenze delle cose, che fine fanno le essenze? Aristotele molto semplicemente ci dice che le essenze delle cose non possono stare fuori, nel mondo delle idee, ma devono stare all’interno delle cose stesse e possono essere conosciute attraverso processi logici che partono tutti dall’esperienza sensibile cioè da ciò che ci appare, per arrivare a formare i concetti che corrispondono alle essenze delle cose . Aristotele non ammette l’esistenza di idee innate cioè di idee che abbiamo già dalla nascita ma per lui quando nasciamo la nostra mente è vuota e tutto il sapere deriverà dall’esperienza. Facciamo un esempio:i nostri sensi in questo caso gli occhi, vedono cento gatti attraverso un processo logico che si chiama induzione astraggo gli elementi comuni a tutti i gatti che ho visto e mi formo il concetto di gatto che esprime l’essenza del gatto, che sta dentro ciascun gatto e non nel mondo delle idee. Nel corso della storia della filosofia questa convinzione di Aristotele e di molti altri filosofi è stata criticata da coloro che vedono invece i concetti non come espressione di essenze che non esistono ma come semplici convenzioni utili alla vita pratica.

Rispetto a Platone in Aristotele risulta rivalutata pienamente la nostra realtà anche se Aristotele non è un materialista in quanto ammette l’esistenza di un Dio puro spirito che dà il movimento all’universo. Credo che tu per apparenza intenda ciò che i nostri sensi percepiscono della realtà. Durante tutta la storia della filosofia si sono susseguite svalutazioni e rivalutazioni della nostra realtà, spiritualisti e materialisti, semplifico molto, si sono affrontati per secoli, ma anche filosofi non materialisti hanno spesso considerato non pienamente vera la nostra realtà rispetto ad un’altra realtà invisibile, che per alcuni è conoscibile per via mistica per altri resta inconoscibile. La mia scelta? Io sono un razionalista critico, cioè uno che crede con Kant che la ragione alla fine debba essere la misura della verità e che la ragione è limitata e fallibile per cui ha ragione Socrate quando dichiara che possiamo solo di sapere di non sapere, così possiamo evitare assolutismi, intolleranze, razzismi. Sono un agnostico non solo nel senso che con la ragione non possiamo arrivare a nessuna conclusione circa l’esistenza di un Dio, ma anche nel senso che il problema è assolutamente irrilevante perché anche se esistesse non avremmo spiegato niente, sorgerebbe infatti per chi non vuol rinunciare alla filosofia l’altra domanda: “Perché questo Dio?” Sono comunque convinto che la nostra ragione è capace di fondare valori universali come i diritti umani, che sono il dono più bello che la filosofia ha fatto agli esseri umani.

 Alessandro Chiometti (domande) e Marcello Ricci (risposte)

 

22 Luglio 2012   |   articoli, in evidenza   |   Tags: , , , , ,