L’Avvenire, Pisapia e la Costituzione: un triangolo made in Italì

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Ci risiamo: gli strali di Avvenire si abbattono collerici – come il dio che la redazione crede evidentemente di rappresentare – su ogni timido accenno, da parte dell’inginocchiatissima classe politica italiana, ad aperture in senso laico e progressista.

Questa volta, bersaglio delle sacre ire del giornale dei vescovi, per mezzo della penna di Francesco Riccardi, è il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e  tutta la sua giunta comunale. Di quale peccato si è macchiata? La giunta milanese, nelle persone dell’assessore al Welfare, Pierfranceso Majorino, e di  quello del Lavoro, Cristina Tajani, che ne sono i firmatari, ha varato una delibera con la quale si mettono a disposizione dei milanesi che vivono al di  sotto di un determinato reddito i Fondi Anticrisi del comune. La nefandezza consiste nel fatto che a tali fondi potranno attingere persone «sposate o coabitanti nello stato di famiglia per sussistenza di vincolo affettivo al primo gennaio 2012». Quindi anche le coppie di fatto. Orrore. E quindi anche quelle dello stesso sesso. Mostruoso.

Tale macchia si va ad aggiungere ad un ben noto precedente: l’intento programmatico, espresso da Pisapia già in campagna elettorale e di recente  ribadito, di voler  istituire entro questo anno un registro delle Unioni Civili. Tanto basta per spiegare l’ira del quotidiano cattolico, il quale però, evita questa volta di brandire i soliti argomenti – vedi “sacralità-della-famiglia&Co”, evidentemente percepiti démodé persino dagli stessi cattolici – per lanciarsi piuttosto in accuse nientemeno che di incostituzionalità del provvedimento. E sì, perché non è la Bibbia che sancisce che l’unione del matrimonio è solo quella (santificata da dio) tra un uomo e una donna, ma è la nostra stessa Carta Costituzionale. Così l’Avvenire sposta la polemica – stanca, retriva e spossante al punto che farebbe perdere la pazienza anche a Giobbe – sul piano del diritto e, Costituzione alla mano, cita: «all’articolo 29 è inequivocabile nel riconoscere “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. E all’articolo 31 impegna la Repubblica ad agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». Spiegando poi che: «Porre sullo stesso piano coppie che – sposandosi civilmente o religiosamente – assumono un preciso impegno pubblico e persone che – per scelta, o per impossibilità – non rendono vincolanti i propri legami “affettivi”, significa violare la lettera e lo spirito della nostra Carta fondamentale». Ma l’incontenibile Riccardi non si ferma qui, e per dribblare in anticipo le possibili accuse di discriminazione, parte anche in difesa preventiva: «qui non ci sono discriminazioni da sanare, ma condizioni e scelte oggettivamente diverse. La peggiore ingiustizia, lo insegnava anche don Lorenzo Milani, è trattare in maniera uguale situazioni differenti». Amen.

Ora, vorremmo ricordare al Riccardi e, se ci è consentito, ai vescovi, solo un paio di cose. La costituzionalità di un provvedimento è sacrosanta, siam d’accordo. Ma perché mai allora nessuno tra i vescovi o tra quanti ne fanno le (mediatiche) veci, insorge di fronte all’incostituzionalità dei centinaia di provvedimenti con i quali ogni giorno si elargisce denaro pubblico alle scuole confessionali? Non è forse un articolo dello stesso documento, ci pare il 33, che recita che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»? Ma forse alcuni articoli sono più costituzionali di altri, chissà.

Nell’assistere a questo estenuante teatrino delle parti, vien da chiedersi fino a quando i manovratori del pensiero debole pensano di riuscire ancora ad imporre agli italiani la logica dell’uno contro l’altro? Sposati contro conviventi, etero contro gay, e giù a recitare il mantra che l’estensione dei diritti civili ed economici porterebbe al collasso la famiglia tradizionale. Gli italiani non se la bevono più questa storia, e hanno capito ormai che certi steccati servono solo a difendere lo status quo e i privilegi di ben altre categorie, non certo quello di chi, sposato o convivente, etero o gay che sia, non ce la fa davvero più ad arrivare a fine mese. Tuttavia, se davvero ci fossero ancora degli italiani che ci credono, basterà che diano un’occhiata alla cartina dell’Europa – o a quella del mondo intero, se si sentono particolarmente in forma – per accorgersi che il “fattore Unioni Civili” non gioca alcun ruolo nella floridezza economica di un paese. Quale relazione esiste infatti tra l’economia di paesi come la Germania e la Spagna, il Portogallo e la Gran Bretagna, la Svezia e l’Irlanda? Oppure, al di fuori dell’UE, tra l’Australia e la Colombia, il Canada e il Messico, Uruguay e Israele? Sono tutti paesi in cui le unioni di fatto e/o dello stesso sesso sono riconosciute.

Estendere i diritti civili – e fiscali – alle coppie di fatto, siano esse etero o omosessuali, non manderà in bancarotta la famiglia “tradizionale” della porta accanto. Gli italiani l’hanno capito. E i vescovi si rassegnino: non potranno tenere ancora a lungo la storia e il progresso fuori dai confini di questo paese, la cui Carta Costituzionale ha stabilito essere laico.

Alessandra Maiorino – Cronache Laiche

31 Gennaio 2012   |   articoli, attualità   |   Tags: , , ,