Nessuno deve scegliere per noi [Repubblica]

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* di Umberto Veronesi

Oggi Giovanni Nuvoli ieri Piergiorgio Welby, sembra che il dramma debba
avere un nome per esistere.A distanza di appena due mesi, ci sembra di
ritrovare le stesse immagini di corpi-prigione, le stesse parole che si
appellano alla li­bertà di morire e soprattutto le stesse dichiarazioni di
politici e magistrati.

Non che ci facciano meno male, perché non ci siamo
abituati, né mai ci abitueremo. Non possiamo, però, non pensare che davvero
siamo un paese che preferisce commuoversi che riflettere, anche sui temi
profondi e che ci toccano tutti da vicino, come la vita e la sua fine, la
nostra e quella di chi amiamo. Ma non possia­mo neppure accettare
passivamente questa realtà: dobbiamo abituarci a ra­gionare al di fuori
delle emergenze e dei casi individuali e soprattutto fare delle proposte per
risolvere il problema alla radice, perché il peso di smuovere le co­scienze
non ricada sul prossimo Pier­giorgio o il prossimo Giovanni.

Io credo che prima di affrontare il problema dell'eutanasia passiva od
omissiva dobbiamo risolvere quello del diritto all'autodeterminazione del
paziente. Come cittadino e soprattutto come medico, ricercatore e direttore
di un ospe­dale che studia e cura una malattia gra­ve e complessa come il
cancro, ho ela­borato una proposta e ho voluto condi­viderla con esperti di
diritto, di bioetica, di filosofia, di scienza biomedica e an­che con la
gente comune che ha parteci­pato ieri a un incontro pubblico a Mila­no. La
nostra proposta è semplice: «Nes­suno deve scegliere per noi». Ognuno ha il
diritto di decidere cosa vuol fare della propria esistenza nel caso si
trovasse in condizioni che lo privano della sua identità e dignità, anche
nel caso si trovasse in condizioni di non potersi espri­mere autonomamente.
Questo è il fon­damento del Testamento Biologico, che noi riteniamo un atto
di civiltà che do­vrebbe essere riconosciuto anche legal­mente nel nostro
paese. Il principio del­l'autodeterminazione è l'unico che ci garantisce il
rispetto della persona, del corpo, della mente e della loro armonia, anche
quando questa armonia si spez­za. E garantisce anche la professionalità del
medico che cura questo malato, che sempre di più è un medico frustrato e
di­laniato da un lato dalla sua missione di curare sempre ad ogni costo, e
dall'altro dalla sua coscienza personale e dalla partecipazione al dolore
del suo paziente. Davanti alla morte che si avvicina il medico è tentato o
di abbandonare il malato o, all'opposto, di ostinarsi nelle cure per il
timore della sconfitta e delle sue conseguenze, che sono di ordine personale
 professionale e sociale, spes­so anche legali.

Ogni malato deve poter scegliere, an­che se la sua scelta sarà di non
esercita­re il suo diritto in nessun modo. Chi ha fede sceglierà di
affidarsi a Dio e, veden­do negli strumenti medici le sue mani, deciderà di
non rifiutare in nessun caso il trattamento che lo mantiene in una vi­ta
considerata dono e proprietà di Dio. Oppure, al contrario ma, ancora per
fe­de, farà scelte opposte e rifiuterà tratta­menti che potrebbero salvarlo,
ma che vanno contro I capisaldi della sua reli­gione. Chi non ha fede potrà
decidere di affidarsi comunque alla scienza medica indipendentemente dalle
conseguenze sul suo corpo, per non perdere la minima possibilità di
sopravvivenza; oppure sceglierà di stabilire dei limiti oltre ai quali non
vuole ricevere cure inutili che prolungano una condizione di dolore e di
sofferenza.

da Repubblica del 16/2/2007

18 Febbraio 2007   |   articoli   |   Tags: