L’Italia che va a messa davvero: un’inchiesta rivelatrice

Pubblicato da

dal sito www.chiesa:

La frequenza effettiva è molto più bassa di quella dichiarata nei
sondaggi: l'ha accertato una doppia indagine del patriarcato di
Venezia. Che cosa cambia nel giudizio del papa e dei vescovi
sull'Italia cattolica?


* di Sandro Magister

ROMA, 8 febbraio 2007 – La febbrile attesa su chi Benedetto XVI nominerà tra breve nuovo presidente della conferenza episcopale italiana, al posto del cardinale Camillo Ruini che dopo sedici anni lascia per superati limiti di età, non cancella una domanda capitale: quanto è viva la Chiesa italiana?

La risposta del cardinale Ruini è nota. Disse ad esempio l'11 febbraio 2005 a conclusione di una conferenza:

"In Italia ci troviamo in una situazione privilegiata, rispetto a gran parte dell'Europa, perché la fede cristiana, nella sua forma cattolica, in Italia è viva ed è radicata nel popolo".

E spiegò:

"Resto sempre perplesso quando sento dire che i cristiani sono minoranza, ad esempio in Italia, perché di fatto si è cristiani in misura più o meno piena ed intensa e pertanto, se parliamo di una generica adesione al cattolicesimo, possiamo affermare che essa in Italia è ancora largamente maggioritaria. È vero però che sono minoranza coloro che vivono la propria fede in maniera profonda: ma solo da loro può venire una vera spinta, un'animazione in senso cristiano della cultura e della società. È questo del resto il rapporto che si ha normalmente tra minoranze e maggioranze: sono le minoranze convinte e motivate quelle che orientano il cammino delle maggioranze".

Anche l'opinione di Benedetto XVI è nota. Disse il 19 ottobre 2006 agli stati maggiori della Chiesa italiana riuniti a Verona:

"L'Italia costituisce un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti. […] La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità. […] Se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all'Europa e al mondo".

Uno dei dati che comproverebbe la tenuta e la vitalità del cattolicesimo in Italia è la frequenza alla messa domenicale. Da più di trent'anni tutte le rilevazioni concordano nell'attestare una frequenza regolare alla messa molto alta rispetto ad altri paesi d'Europa: stabilmente attorno al 30 per cento, cui va aggiunto un 20 per cento che va a messa da una a tre volte al mese e un altro 30 per cento che ci va a Natale, a Pasqua e nelle grandi festività.

Ma questi alti indici di partecipazione fotografano con esattezza la realtà? Gli esperti di sociologia religiosa hanno sinora sempre accreditato come validi questi dati, ripetutamente raccolti con interviste da un campione della popolazione italiana. Semmai sono i preti ad esprimere in proposito dubbi e perplessità. Da un'indagine tra il clero in Italia, condotta nel 2003 da Franco Garelli, risulta che molti parroci ritengono la frequenza alla messa non stabile ma in diminuzione e stimano attorno al 20-22 per cento la media nazionale di chi va in chiesa ogni domenica, ossia 8-10 punti in meno rispetto alle survey.

Chi ha ragione? Per la prima volta è stata condotta una ricerca che consente di rispondere a questa domanda con più cognizione di causa. La ricerca ha riguardato il patriarcato di Venezia retto dal cardinale Angelo Scola, una diocesi con 365 mila abitanti, una porzione piccola dell'Italia. I risultati non possono quindi essere estesi automaticamente all'intera nazione. Essi sono però di grande interesse, anche perché rispecchiano le indicazioni emerse da analoghe indagini condotte sulla pratica religiosa negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.

A Venezia la ricerca è stata promossa dal patriarcato e sarà pubblicata dall'editrice arcivescovile Marcianum Press. Ma il curatore, Alessandro Castegnaro, direttore dell'Osservatorio Socio-Religioso per il Triveneto, ne ha anticipato i risultati sulla rivista di sociologia "Polis" stampata a Bologna dall'editrice il Mulino, in un saggio scritto assieme a Gianpiero Dalla Zuanna, professore di demografia all'Università di Padova.

La ricerca si è svolta in due tempi.

In un primo momento, a tutti coloro che hanno preso parte alle 619 messe festive celebrate nel patriarcato di Venezia il 13 e 14 novembre 2004 è stato distribuito e fatto subito compilare in chiesa un questionario, nel quale si chiedeva a ciascuno di dire anche a quante altre messe festive avesse partecipato nelle quattro domeniche precedenti.

In un secondo momento, nella primavera del 2005, a un campione della popolazione del patriarcato di Venezia è stata posta la consueta domanda sulla frequenza alla messa. In entrambi i casi, l'età dei rispondenti presa in considerazione è stata quella compresa tra i 18 e i 74 anni.

Alla survey, le risposte hanno fornito risultati vicini a quelli nazionali degli ultimi trent'anni. Il 26 per cento ha detto di andare a messa tutte le domeniche e un altro 16,5 per cento ha detto di andarci da una a tre volte al mese. Sommati, i frequentanti sarebbero il 42,5 per cento della popolazione del patriarcato.

Nettamente inferiori, invece, sono state le frequenze risultanti dal conteggio diretto in tutte le chiese del 13 e 14 novembre 2004. Quelli che hanno detto di essere andati a messa anche in tutte e quattro le domeniche precedenti sono il 15 per cento della popolazione. E quelli che hanno detto di esservi andati da una a tre volte sono il 7,7 per cento. Sommati, il 22,7 per cento della popolazione.

In entrambi i rilevamenti le donne praticanti sono più numerose degli uomini e la frequenza alla messa aumenta col crescere dell'età e col crescere dell'istruzione. Scrivono a questo proposito Castegnaro e Dalla Zuanna nel loro saggio su "Polis":

"I nostri risultati propongono un popolo di frequentanti molto più istruito di quello che ci si poteva immaginare, e queste differenze sono più intense tra i giovani che tra gli anziani: fra i trentenni praticanti regolari i laureati sono uno su tre, mentre fra i trentenni nel complesso della popolazione i laureati sono solo uno su dieci".

Il dato che più colpisce è comunque la forte distanza tra le frequenze alla messa dichiarate nelle interviste e quelle riscontrate effettivamente nelle chiese. Le frequenze dichiarate sono molto più numerose di quelle reali. E i più propensi a sovradichiarare la propria pratica religiosa sono le persone con basso titolo di studio.

Un altro elemento che colpisce è la coincidenza quasi perfetta tra le frequenze effettive alla messa e la percezione che i preti hanno del fenomeno. Quel 22,7 per cento di praticanti misurati sul campo è una percentuale quasi identica a quella stimata da un campione di preti del patriarcato di Venezia intervistati nel corso della stessa ricerca, oltre che coincidente col sentire diffuso dei preti italiani a livello nazionale.

Inoltre, la distanza rilevata nella doppia indagine veneziana tra la frequenza alla messa dichiarata e quella effettiva è simile a quella rilevata negli anni Ottanta e Novanta in analoghe indagini comparate svolte negli Stati Uniti (25 per cento effettivo contro 40 per cento dichiarato) e in Gran Bretagna (14 per cento contro 21). Di queste indagini hanno dato conto C.K. Hadaway, P.L. Marler e M. Chaves in saggi apparsi sulla "American Sociological Review".

Un'ulteriore conferma è data da alcuni conteggi diretti fatti in anni passati a Venezia e in altre aree del Veneto. In ogni caso, questa del 2004-2005 è la prima comparazione effettuata in Italia tra frequenze effettive e frequenze dichiarate, per la stessa popolazione. Essa si limita al patriarcato di Venezia. "Tuttavia", scrivono Castegnaro e Dalla Zuanna, "le sfasature da noi riscontrate sono così ampie e ricalcano in modo così evidente quanto visto in altri contesti non italiani, da indurci a pensare che anche altrove, in Italia e in Europa, possa esistere il medesimo problema".

Ma perché avviene questa sfasatura? Castegnaro e Dalla Zuanna avanzano soprattutto tre motivi che spingerebbero a sovradichiarare la frequenza alla messa.

Un primo motivo è la maggiore propensione a rispondere alle survey su questa materia che hanno le persone più religiose di bassa istruzione, rispetto a quelle lontane dalla Chiesa.

Un secondo motivo è il diverso significato che la domanda sulla frequenza alla messa può assumere per chi la fa e per chi la riceve. L'intervistatore vuole misurare un preciso comportamento, mentre alcuni rispondenti pensano piuttosto a dar conto della propria generale adesione alla Chiesa.

Un terzo motivo è la volontà, più o meno consapevole, di dare di sè un'immagine coerente con i propri convincimenti profondi. Dalla stessa indagine risulta che otto veneziani su dieci affermano di essere cattolici, di credere in Dio, di pensare a Dio almeno una volta al giorno, di rivolgersi a lui nei momenti difficili, di sentirlo presente e vicino. Quando dicono di osservare il precetto festivo più di quanto lo osservino in pratica è perché ritengono la partecipazione alla messa la giusta espressione dei loro convincimenti.

E così chi va a messa due o tre volte al mese risponde di andarci tutte le domeniche. Chi ci va una volta, dice di andarci due o tre. Chi ci va più di raro dice di andarci una volta al mese. Bastano queste piccole singole variazioni perché la frequenza complessiva alla messa risulti, nelle survey, molto sovradimensionata rispetto ai dati reali.

Ma da qui a concludere che la fede cristiana in Italia non sia "viva e radicata nel popolo" ne corre.

Queste indagini tracciano piuttosto un profilo dell'intreccio tra gli italiani e la Chiesa cattolica più realistico.

E più coincidente col giudizio che i pastori di questa stessa Chiesa, vescovi e preti, hanno da tempo già maturato sul campo, per esperienza diretta.

18 Febbraio 2007   |   articoli   |   Tags: