DOPO LA SENTENZA DI STRASBURGO SULLA LEGGE 40, UN LEGITTIMO INTERROGATIVO DA PARTE DI UN CITTADINO LAICO

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Sono un cittadino: un cittadino attivista che ha profuso energie e risorse nella difesa della nostra società da quella che io considero una delle peggiori iatture del nostro tempo. Sto parlando della violazione continua e latente dei diritti umani fondamentali.
Inutile evidenziare che gran parte di queste violazioni avvengono da parte delle religioni, ma non solo.

Se anzi questo dovesse servire a dimostrare che il mio impegno non è contro la religione in se stessa ma solo contro chi tenta di imporla e che sono pronto a difendere la collettività da qualsiasi scorrettezza indipendentemente da chi sia stata commessa, mi sembra opportuno ricordare che non ho esitato a portare in tribunale la mia ex-associazione (l’UAAR) per quello che io considero un comportamento oltre ogni limite accettabile da parte della sua dirigenza.

Ma non è questo il tema della presente nota.

 Io ero uno di quei “laicisti” illusi che tra il 2004 ed il 2005 hanno raccolto firme, che fino all’ultimo momento hanno partecipato a incontri e convegni, che hanno fatto i rappresentanti di lista nei seggi in quello che fu uno dei più tragici referendum della storia del nostro paese.

Ricordo la delusione di tutti i militanti dell’UAAR e delle altre associazioni con cui avevamo partecipato al comitato nazionale contro la legge 40 quando risultò che il quorum non era stato raggiunto.

 Ora, alla faccia del Sig. Storace (che nel 2003 parlava di fare un “regalo di natale” al papa approvando la legge 40), del Sig. Rutelli (il “cicciobello” della politica italiana che, in uno dei suoi peggiori volta-faccia, sempre nel 2003 asseriva di preferire una cattiva legge al far west), di tutta l’ala confessionalista del parlamento italiano che per una ragione o per un’altra tenta da sempre di ingraziarsi la lobby clericale e (aggiungo con una nota di soddisfazione personale) del Sig. Camillo Ruini che (come il suo successore Bagnasco) non ha ancora capito i limiti del suo ruolo di presidente della CEI, la corte di Strasburgo ha decretato che quella legge contiene elementi contrari all’articolo 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Sembra infatti che il semplice particolare per cui ad una qualsiasi coppia venga vietata l’analisi pre-impianto costituisca una pesante ingerenza nella vita privata.

Si badi bene che a tale risultato si è arrivati facendo considerazioni contestualizzate nell’ambito del nostro sistema giuridico: l’incoerenza infatti è venuta fuori perché da una parte si vieta l’analisi pre-impianto e dall’altra si autorizza l’interruzione di gravidanza se il feto è affetto da una patologia che era stato vietato diagnosticare.

Quindi non è un divieto in se stesso ad essere fuori dalle convenzioni, ma è il divieto inserito in quell’ambito.

In altre parole: l’incoerenza ha costituito il fallo (ed il conseguente cartellino rosso).

 Non è che fosse così difficile arrivare a tale conclusione, però (come si sa) per passare dalle convinzioni personali alle convenzioni ufficiali occorre seguire un certo iter.

Ora l’iter è giunto alla sua conclusine e la storia ci sta dando ragione.

Per chi è abituato all’attivismo in difesa della laicità non è una novità scoprire che quando si impone una religione attraverso norme di legge è difficilissimo non violare almeno uno dei diritti umani fondamentali stabiliti dalla Dichiarazione Universale e recepiti dalla Convenzione Europea.

Nel caso della religione cattolica poi colgo l’occasione per ricordare che il teocrate a capo dello staterello di Via della Conciliazione quei documenti non li ha mai sottoscritti (anche se ne parla a spron battutto quando gli fa comodo per far presa sulle masse).

 Qualcuno potrà evidenziare che questo risultato lo dobbiamo soprattutto all’Europa, perché se non ci fosse stata la corte di Strasburgo l’Italia vivrebbe ancora più isolata nel suo regime catto-clientelare che dal secondo dopoguerra (se si eccettuano alcune parentesi) ha sempre dominato incontrastato in ogni contesto della nostra vita politica e sociale.

In effetti la Corte Europea ha demolito definitivamente una legge emanata da un paese sovrano.

Ma ecco che a questo punto, se mi è concesso fare un “parallelo di coerenza”, al sottoscritto sorge spontaneo un interrogativo.

 Per porci questo interrogativo occorre rimettere gli orologi indietro di tre anni: era il tardo 2009 e la stessa Corte di Strasburgo accolse in primo grado il ricorso di un’altra coppia (Lautsi-Albertin) decretando che l’esposizione di un crocifisso in un luogo deputato alla pubblica istruzione costituisse una violazione alla libertà di coscienza (sempre in riferimento agli articoli della Convenzione Europea).

Si badi bene che il ricorso Lautsi-Albertin non era stato portato contro una legge dello stato, ma contro una “consuetudine diffusa”: una delle tante regole non scritte (eredità di un passato medievale) che costituiscono in massima parte la vera violazione dei diritti umani in quanto figlie di tradizioni “identitarie” fuori dalla storia e di comunitarismi (spesso coatti).

Le settimane che seguirono videro la peggiore espressione dell’italietta clerical-confessionale: da Gasparri che diceva “potete morire” a Sgarbi che dal suo trespolo lanciava i suoi consueti anatemi schizoidi contro gli esponenti dell’UAAR.

Nei quattordici mesi successivi poi abbiamo assistito allo schieramento confessionalista europeo che raschiava il fondo della padella cercando disperatamente qualcuno che attuasse il ricorso in appello contro tale sentenza per conto della “teocrazia vaticana” che (essendo fuori dall’UE) non poteva agire direttamente.

La “eleven confessional-nation army” era costituita da: Italia, Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, San Marino, Russia, Principato di Monaco e Romania (probabilmente, se avesse fatto parte dell’UE, vi avremmo visto anche il Monte Athos).

Il ricorso si concluse nel gennaio 2011 con un pronunciamento che capovolse letteralmente la sentenza in primo grado: ossia che la semplice esposizione di un simbolo religioso non costituisce violazione dei diritti umani.

 Eccoci dunque giunti alla questione: qualcuno ha mai pensato che esporre un simbolo religioso sia contrario ai diritti umani ?

In qualità di attivista laico sono l’ultimo a pensare una cosa del genere.

Ma se andiamo contestualizzare tale circostanza: se andiamo ad esporre tale simbolo in un luogo pubblico deputato alla pubblica istruzione (come le scuole) o al pubblico giudizio (come i tribunali), un luogo che in uno stato laico dovrebbe essere NEUTRALE per antonomasia, non nasce per caso anche qui un’incoerenza ?

E come mai quella stessa corte di Strasburgo che ha notato un’incoerenza molto meno evidente nella legge 40 (fino dichiararla contraria ai Diritti Umani) si è lasciata sfuggire in sede di appello questa incoerenza dettata da una consuetudine diffusa (non da una legge) e che almeno al sottoscritto (e non solo) appare abbastanza palese ?

 

Non sono un giurista, ma se l’avvocato Carla Corsetti (a cui va tutto il mio rispetto e la mia ammirazione) è riuscita poche settimane or sono, nella sua difesa in Cassazione del Giudice Tosti, a far figurare il crocifisso come “simbolo politico”, questo mio interrogativo può apparire legittimo oppure no ?

 Francesco Saverio Paoletti

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