Credenze

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"Credere" è un verbo di vasta estensione, diffuso confusamente nel
linguaggio comune senza restrizioni riferite a vincoli cognitivi.
All'origine delle nostre culture troviamo quasi sempre qualche divinità
depositaria di un messaggio oscuro e indecifrabile nel quale è nascosto
il potere che dovrebbe garantire la nostra salvezza dai pericoli ai
quali la vita ci espone. Oppure il messaggio è nascosto nell'ordine e
nel disordine stesso delle cose del mondo, e del suo potere liberatorio
dovremmo essere partecipi nel fondo misterioso della nostra energia
vitale.


     Ma quando la rassicurazione depositata nelle nostre credenze viene messa alla prova da sofferenze e sventure imprevedibili e ingiustificate, cominciamo ad esercitare la capacità del confronto e scopriamo l'iniquità della giustizia nella quale siamo cresciuti. Allora  impariamo a porre vincoli cognitivi alla nostra capacità di "credere" e a mettere un po' d'ordine nelle nostre comparazioni, nella speranza di scoprire il motore nascosto che la sostiene e la alimenta. E presto ci troviamo di fronte a tre procedure: le testimonianze di coloro che ci hanno preceduto e hanno costruito le tradizioni che conservano la memoria delle origini; gli accertamenti sui documenti delle tradizioni e degli eventi nei quali è depositato il messaggio della nostra liberazione e della nostra salvezza; le argomentazioni dei custodi della inviolabilità delle origini. Ma queste tre procedure di difesa delle credenze sono intricate e piene di insidie. Le argomentazioni persuasorie dipendono dalla scaltrezza degli emittenti e dall'ingenuità dei riceventi. Gli accertamenti storici quasi sempre sono accessibili solo se confermano l'inviolabilità delle tradizioni e delle origini.  Le testimonianze – come nei processi in tribunale – sono credibili in base all'onestà mentale del testimone e alla sua capacità di spogliarsi della rielaborazioni dei propri ricordi: una procedura che richiede una dedizione ferrea all'imparzialità.

      Così, alla fine, scopriamo che soltanto le argomentazioni logiche sono immuni dalla tendenziosità. Come possiamo verificare in due semplici esempi, accessibili al senso comune: la somma di due numeri dispari dà sempre come risultato un numero pari; la somma degli angoli interni di un triangolo dà sempre come risultato 180° gradi. Purtroppo dobbiamo concludere che le argomentazioni logiche producono certezze intellettuali, ma non rassicurazioni contro i pericoli della nostra vita; se intanto abbiamo scoperto che le credenze non appartengono all'universo della logica, potremmo rassegnarci a considerarle provvisorie e relative all'educazione che abbiamo ricevuto; nei confronti della quale siamo stati per lungo tempo impotenti.  E dunque il segreto delle credenze sta nel "Potere".

      Del potere facciamo esperienza ingenua e spontanea fin dall'infanzia quando esploriamo i nostri rapporti con coloro ai quali siamo affidati e con le cose che ci circondano. E presto avvertiamo forze che ci resistono. Dapprima non sappiamo distinguere il potere di coloro che ci allevano da quello imposto dalla natura  delle cose, e solo col tempo siamo costretti ad accettare che quest'ultimo è più forte  non solo delle nostre  preferenze  e dei nostri desideri  ma anche del potere degli adulti. Quando ciò non accade ci troviamo avviati  sulla strada dell'infelicità oppure su quella della prepotenza. Ci ribelliamo vanamente e costruiamo un'immagine del mondo che sogna l'onnipotenza. Ma i più vivono mediocremente senza imparare a cogliere le distinzioni che contano nel corso dell'esistenza.

      Nasciamo, cresciamo, operiamo e moriamo entro rapporti asimmetrici  e gerarchici: figli di fronte ai genitori, bambini e adolescenti di fronte agli adulti, malati di fronte ai sani, vecchi di fronte a donne e uomini  in età lavorativa, dilettanti di fronte a specialisti, venditori delle nostre attitudini e delle nostre competenze di fronte a signori dei mercati del lavoro induriti dalla concorrenza.

     Ma la presa di coscienza retrograda di queste dipendenze arriva sempre in ritardo. Quando scopriamo i nostri desideri, le nostre preferenze  sono già state orientate. Quando scopriamo i nostri gusti, la nostra sensibilità è già stata educata. Quando scopriamo la nostra curiosità, la nostra immaginazione è già stata sfrondata. Quando scopriamo la nostra intelligenza, l'orizzonte del nostro sapere è già stato segnato. Quando scopriamo la nostra solitudine, la nostra interiorità è già stata violata. Quando scopriamo la nostra socievolezza, la nostra solidarietà è diventata da tempo una virtù domestica e di buon vicinato. Quando scopriamo la nostra socialità, il nostro impegno è da tempo castigato nel territorio delle azioni doverose e legali.

      Così, se abbiamo successo e ne siamo felici, stiamo raggiungendo un adattamento perfetto a ciò che gli altri volevano. Se al contrario siamo disadattati e insoddisfatti, perdiamo sicurezza e siamo pronti per i ruoli della rassegnazione, della viltà e dell'impotenza. Faticosamente e confusamente arriviamo ad ammettere che il potere subìto è incomparabilmente maggiore di quello che riusciamo ad esercitare. E allora gli orizzonti di libertà che le narrazioni religiose e quelle eroiche ci hanno educato ad amare ci appaiono angosciosamente ristretti.

     Inevitabilmente, l'esercizio della nostra libertà inizia sempre con una verifica dei nostri poteri inter-personali e intra-personali, ma si ritrova sempre impegnato a gestire comportamenti di ruolo. Ruoli dell'infanzia, dell'adolescenza e dell'età adulta. Ruoli parentali e ruoli sociali. Ruoli affettivi e ruoli cognitivi. Ruoli dell'apprendimento, del lavoro e del divertimento. Ruoli pubblici e privati. Ruoli dell'amicizia, dell'amore e dell'intelligenza. Ruoli della vecchiaia e della morte annunciata. E quasi manca il tempo di chiederci che cosa della nostra esistenza veramente ci appartiene. E quando finalmente ci accorgiamo di essere attori sociali di drammi banali e dimenticati, scopriamo la differenza incolmabile tra la vita e il palcoscenico.

     Ma il disagio che ci procurano tutte queste ricognizioni può portarci ad una simulazione più realistica delle nostre interazioni sociali. Finalmente siamo costretti a riconoscere che la libertà è un potere minore, non di rado minimo, per molti inesistente, che si annida nel corpo di un Potere maggiore: la Forza e insieme l' Autorità di far fare, far agire, far parlare e finalmente far sentire e pensare; e dunque anche di impedire tutte queste  cose. Più grande del Potere esiste soltanto la Forza della Natura, che non ha altra autorità all'infuori di quella che riceve dal riconoscimento degli uomini. Senza di questo essa si presenta come pura violenza. Predazione e competizione sessuale. Vita e morte indissolubilmente congiunte. Trasformazione impersonale e senza scopo della materia e dell'energia.

      In fondo il Potere è il volto umano della Violenza Naturale. Maschera quest'ultima e la distribuisce con un'iniquità regolata. Pone argini al caso e simula la necessità. Esercita un arbitrio e instaura una suo arbitrato. Privilegia alcuni individui, ma controlla la società.  Legittima alcune violenze e ne esclude altre. Per questo il rito del Sacrificio (sacrum-facere) fonda le culture scegliendo  arbitrariamente le vittime che dovrebbero garantire la sopravvivenza in una Natura benigna. Dunque, l'origine di tutte le nostre credenze è arbitraria e non possiamo illuderci che il potere della ragione trovi facile il transito dalla credenza alla non-credenza. Invece dobbiamo prendere atto che questo percorso è tentato solo da pochi, ai quali la perseveranza del loro coraggio concede la forza di dichiarare pubblicamente la non-credenza in prima persona: non credo. Purtroppo le ragioni del potere sono più forti del potere della ragione.

     Allora non dobbiamo stupirci se l'origine del Potere coincide sempre con l'origine del Sacro, che poi  si perpetua nelle tradizioni religiose. E non dobbiamo stupirci se in origine tutti gli arbitrati sono crudeli e legittimano più o meno esplicitamente la schiavitù, cioè lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Dobbiamo ricordarci che prima di  essi c'è stata una plurimillenaria competizione dell'uomo con le altre specie viventi. Alla padronanza della sua differenza specifica – cioè della sua capacità di produrre strumenti mediante precedenti strumenti indefinitamente – Homo Sapiens è giunto come un competitore vincente, pronto a trasferire all'interno della propria specie la competizione tra le diverse culture, che egli aveva prodotto nel corso degli insediamenti distribuiti nei luoghi più differenti del pianeta Terra.

      E dunque, inevitabilmente, tutte la nostre ribellioni si consolidano nell'arbitrarietà di un Contro-Potere che maschera anch'esso la violenza della Natura. Così, nonostante le seduzioni epiche delle nostre culture, il Potere ha sempre l'ultima parola; anche nel suo esercizio oppositivo. E il percorso che ci potrebbe liberare da credenze illusorie e crudeli per renderci disponibili ad arbitrati puramente umani – che almeno riducano l'iniquità della giustizia accumulata nei millenni sotto alla protezione del Sacro e delle istituzioni religiose che lo hanno instaurato nella storia delle nostre culture – insomma il percorso del disincanto della ragione è una lunga marcia dentro queste ultime per liberarci gradualmente dalla violenza del loro incantesimo.   

21 Luglio 2009   |   articoli   |   Tags: